La società del rischio e della conoscenza richiede collaborazione in rete

di Enzo Rullani

Viviamo, e continueremo per un bel pezzo a vivere, in un sistema strutturalmente instabile, caratterizzato da un livello di rischio elevato. Occorre attrezzarsi per conviverci e il primo strumento a disposizione è la collaborazione

Collaborare – aiutando, condividendo, stando insieme ad altri anche nelle difficoltà della crisi – è un’idea esotica, per anime belle?

C’è chi lo pensa. Ma sbaglia. Perché collaborare, prima di tutto, conviene: consente di affrontare in modo efficace i due problemi chiave del nostro tempo: come affrontare il livello crescente di rischio che oggi si accompagna agli investimenti fatti per costruire il proprio futuro; come far fruttare le proprie conoscenze, rendendo remunerativi gli investimenti fatti allo scopo.

Prima di tutto, oggi, la nostra capacità di investire sul futuro è messa in pericolo dal livello crescente dei rischi che devono essere affrontati. Ci troviamo infatti a far parte di una economia che, specializzandosi e diventando globale ha spinto al massimo le interdipendenze tra imprese, tra lavori, tra territori. Ma si tratta di interdipendenze non governate. Di fronte ad un’economia che opera ormai a scala mondiale, gli Stati sono infatti rimasti nazionali, e hanno dunque perso gran parte del potere (sovrano) di regolare e stabilizzare i sistemi economici ospitati sui loro territori. D’altra parte, il mercato globale ha fatto posto a “giganti” come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile ecc., che, col loro sviluppo accelerato continuamente creano squilibri nei mercati delle materie prime, dell’energia, delle merci, delle valute, dei capitali, del lavoro ecc..

In attesa di (improbabili) correttivi a questo stato di cose, cominciamo ad abituarci a un’idea: viviamo, e continueremo per un bel pezzo a vivere, in un sistema strutturalmente instabile, in cui i valori e le quantità ballano senza preavviso. E in cui, dunque, nessuno – nemmeno le grandi imprese e ormai nemmeno lo Stato – è in grado di esentare gli altri dal rischio. Che finisce per gravare sulle spalle di ciascuno di noi: imprenditori, certo, ma anche lavoratori, risparmiatori, cittadini (tassati), consumatori.

Del resto, nell’economia della conoscenza il rischio è connaturato al fatto che il valore delle conoscenze è altamente aleatorio: non ha niente a che fare con i costi necessari per produrla e potrà in futuro essere zero o arrivare a qualche milione di euro a seconda di come andranno le cose. Tenendo conto, però, che, in un contesto instabile, non c’è modo di saperlo in anticipo.

Viviamo dunque una contraddizione:

vorremmo/dovremmo investire sul futuro,

ma non sappiamo come fare a fronteggiare il rischio conseguente.

I valori degli investimenti in assets immateriali (conoscenza e relazioni) sono infatti sempre più rilevanti bei bilanci delle imprese e delle famiglie.

Per avere davvero un futuro, bisogna spenderci su, tutti lo dicono. Ma il valore di questi assets immateriali è totalmente ipotetico: quanto valgono un brevetto, un marchio, una competenza, una ricerca, un programma di lavoro, una rete di relazioni? Non giriamoci intorno con indici e contro-indici: la verità è che nessuno lo sa. Nessuno lo può dire con cognizione di causa, nemmeno i famigerati “Mercati” (men che meno le altrettanto famigerate “agenzie di rating”). Che non misurano il futuro (come potrebbero?) ma misurano solo la disponibilità di alcuni a comprare e di altri vendere, nel presente. Il prezzo attuale a cui avvengono questi scambi è dunque una stima cieca, che somma aspettative umorali e poco fondate. Insomma si tratta di una stima altamente instabile, suscettibile di far crescere i valori correnti a picchi altissimi e poi azzerarli di colpo, quando gli umori cambiano segno.

Che cosa consente di vivere e prosperare in una economia del genere?

C’è un’unica possibilità: costruire reti stabili (e affidabili) di relazione, per condividere consapevolmente rischi, investimenti e conoscenze.

Altre soluzioni, che sono state sperimentate sin qui, hanno dato pessima prova. Prima di tutto la soluzione speculativa, per cui i rischi sono passati, sul mercato finanziario, ad un professionista della finanza che li concentra ex ante per guadagnarci su, in un momento successivo. Abbiamo visto come è andata a finire. Ma non ha funzionato bene neanche l’altra soluzione, che punta a trasferire allo Stato le perdite che, quando le cose vanno male, emergono a carico di banche, di imprese o di privati che – per una ragione o per l’altra – “non possono fallire”. Gli Stati si sono indebitati fin troppo, e ora la festa è finita: non sanno su chi scaricare, con le tasse o con l’inflazione, le perdite che si sono incautamente assunti.

Dunque bisogna voltare pagina. Potremmo ad esempio cominciare a condividere rischi, investimenti e conoscenze in reti di collaborazione da noi stessi create. Dentro l’impresa, prima di tutto, con forme di management e di lavoro collaborativo. E tra imprese, con alleanze, filiere organizzate, contratti di rete o altro. Quello che conta è che ci si muova verso il futuro creando cordate che non si sfaldano al primo ostacolo, e che vanno avanti condividendo non solo il progetto, ma anche i benefici e le perdite man mano che arrivano.

E’ un viaggio che alcuni hanno già intrapreso, ma certo non basta. I numeri sono ancora piccoli, riguardando un’élite di pionieri che segna la strada ma non fa media. Il gruppone per adesso attende confuso, girando in tondo.

Cercasi disperatamente altri disposti a capire da che parte tira il vento della storia, spiegando le vele lungo la buona rotta.

Tratto da http://www.servicemotion.it/2012/04/20/la-societa-del-rischio-e-della-conoscenza-richiede-la-collaborazione-in-rete/, 20 aprile 2012