L’Italia: una società senza stato

di Rossella Aprea

Nel numero 1 della rivista Il Mulino di quest’anno Sabino Cassese sintetizza i contenuti del suo libro e spiega le ragioni della debolezza politica del nostro Paese, nato più di centocinquant’anni fa, e privo di “una Costituzione efficiente, di esecutivi duraturi, di un severo minimo di governo, di leggi che dettano regole e non deroghe, di vertici amministrativi scelti in base al merito e autenticamente imparziali, di istituzioni capaci di creare fiducia nello Stato….”. In altre parole, l’Italia si troverebbe in una condizione diversa oggi, se avesse avuto “non meno, ma più Stato”.

La Costituzione debole

Le due Costituzioni che ha avuto l’Italia – lo Statuto albertino del 1848 e la Costituzione repubblicana del 1948 -, sono state ambedue deboli, hanno avuto così un ruolo secondario nella “Costituzione materiale” del Paese.

L’Italia unita non si dette una Costituzione, ma ereditò quella del Regno di Sardegna, così la popolazione non partecipò mai alla scelta della configurazione che il nuovo Stato avrebbe dovuto assumere. La costituzione Repubblicana, d’altro canto, è rimasta a lungo sulla carta, basata sostanzialmente su un sistema di equilibrio tra i poteri. Solo nel 1970 vennero effettivamente istituite le regioni e ancora nel 1981 Massimo Severo Giannini, riferendosi alla “lentissima fondazione dello Stato repubblicano”, diceva che “è ancora un edificio in costruzione, per alcune parti anzi malfatto..”. Basta considerare che le prescrizioni più importanti della Costituzione non sono state ancora attuate: il diritto al lavoro, il diritto allo studio per i capaci e i meritevoli, la democrazia sindacale, la cogestione.

“Tra ritardi nell’attuazione e inattuazione, la Costituzione repubblicana è stata, quindi, sfigurata, nel senso che la realtà costituzionale non risponde ai principi e al modello da essa stabiliti.”

“L’Italia del popolo italiano?”

Il secondo tratto costante della storia del potere pubblico in Italia è il distacco tra società e Stato, Paese reale e Paese legale, cittadini e autorità.”… Per due terzi della storia unitaria, sono stati pochi i cittadini ammessi a partecipare alla vita collettiva attraverso elezioni”… Il distacco tra Stato e cittadino procedeva in un duplice senso: era sfiducia del cittadino nello Stato, e al tempo stesso esclusione dettata dallo Stato.” Lo Stato italiano è rimasto per lungo tempo uno Stato “monoclasse” e così… per lunga parte della sua storia, la maggioranza del Paese è rimasta estranea allo Stato, non ha avuto voce nella gestione collettiva e ha vissuto con tanto disagio che molti sono stati costretti a trasferirsi, prima all’estero, poi al Nord.

“Manca l’anima della nazione”

Giuseppe Mazzini, alla vigilia della sua morte nel 1871 lo disse chiaramente – l’Italia unita è” il fantasma dell’Italia”, perché “manca …l’anima della nazione.” Da una relazione del 1863 sulla Calabria emerge che “non c’erano associazioni di nessun tipo e nessuna organizzazione di mutuo soccorso; tutto [era] isolamento” e così “la cronica debolezza dello Stato sfociò nel diffondersi delle istituzioni di iniziativa individuale e nel potere esclusivo imposto da parte di gruppi non ufficiali che impedivano allo Stato di meritare la lealtà dei propri cittadini, mentre le debolezze che ne risultarono rafforzarono di nuovo la famiglia, il clientelismo, la mafia”. Il legame naturale più forte era quello della famiglia. Mancava ciò che rende una nazione unita e la questione meridionale è stata posta in termini di compensazione finanziaria per riequilibrare un deficit economico, mentre invece era necessario uno Stato che facesse rispettare un “severo” minimo di leggi e ricostituisse la fiducia nelle istituzioni e in un diritto valido per tutti, senza eccezioni. Per questo motivo il Mezzogiorno resta il più grande nodo irrisolto nello sviluppo del Paese.

I rapporti verticali della raccomandazione e del clientelismo sorgono in “risposta alle debolezze delle strutture amministrative e giudiziarie dello Stato” a causa della “diffusa mancanza di fiducia e sicurezza, non assicurata né dallo Stato, né da norme e reti civiche”. In questo va cercata la spiegazione della debolezza della nostra tradizione civica e dello scarso senso di partecipazione civile che ancora permane. L’assenza di fiducia in un’autorità credibile mina anche la fiducia tra soggetti eguali. La fede privata si sostituisce a quella pubblica e quindi all’illegalismo di gruppo si aggiunge l’illegalismo individuale, quello della corruzione e dell’evasione ed elusione fiscale.

La discrezionalità della legge

La necessità iniziale di differenziare la legislazione nel Paese per zone a causa dei forti dislivelli di sviluppo ha minato il principio della generalità della legge.

Perciò l’ordinamento giuridico, in principio retto da un diritto codificato, è stato indebolito ed eroso da una sorta di disobbedienza legale fatta di norme speciali, straordinarie, eccezionali, derogatorie.

Questa situazione ha prodotto una sovrabbondanza di norme, difficilmente ordinabili in assetti precisi, rendendoli per lo Stato sia un’arma che un rompicapo. Un’arma per quegli uffici che volevano avvalersi del massimo di discrezionalità, trovando la legge adatta o profittevole, un rompicapo per quegli uffici che, in buona fede, intendevano, invece, individuare la norma applicabile al caso concreto. Così si sono create le condizioni per la negoziazione della norma applicabile e per un comportamento discrezionale da parte del potere pubblico.

L’instabilità governativa

Nello Statuto albertino il governo non era nemmeno menzionato. L’Italia si trovò agli inizi del XX secolo senza un Parlamento rappresentativo, né un esecutivo forte per le frequenti crisi parlamentari, per la debolezza della figura del Presidente del Consiglio, per la logica delle coalizioni dei partiti e delle fazioni. L’esecutivo venne consolidato con il fascismo, che pose la figura del capo del governo in una posizione gerarchica superiore rispetto agli altri ministri. Per reazione a queste posizioni fasciste, la Costituzione repubblicana non previde meccanismi di stabilizzazione del governo. A parte il ventennio fascista, dunque, nei centocinquant’anni della storia unitaria l’Italia ha avuto 121 governi, con una durata media di poco più di un anno, con conseguenze facilmente prevedibili per le continue interruzioni degli indirizzi politici.

Lo Stato e i privilegi degli interessi privati

Lo Stato italiano non si è mai reso indipendente dalla società civile, cioè rispetto agli interessi privati, sia economici che elettorali. Ciò non ha mai consentito ai poteri pubblici di tutelare gli interessi collettivi. Nel secondo dopoguerra la vestizione di interessi privati con panni pubblici si è addirittura estesa con lo sviluppo delle professioni protette. Quindi, queste strutture statali prive della legittimazione generale che poteva derivare da un’investitura popolare diffusa, si sono appoggiate e hanno approfittato di legittimazioni settoriali.

La mancanza di alti funzionari pubblici

Non si è mai affermata in Italia una haute fonction publique paragonabile a quella francese o britannica, costituita da un corpo professionale di funzionari, scelti secondo il criterio del merito e sottoposti solo alla legge. La ragione? Il primato della politica, che ha mantenuto un controllo sugli apparati pubblici. Lo sviluppo della burocrazia è stato dettato da regole e principi non interni al corpo stesso e alle esigenze dello Stato, quanto piuttosto da pressioni e contingenze esterne, dell’economia e della politica.

Conclusioni

La gracilità delle strutture pubbliche è all’origine dell’ineguale distribuzione del progresso, uno dei maggiori problemi ancora aperti nella società italiana. Alla rappresentazione degli elementi di debolezza del nostro Paese sopra riportati assistiamo ancor oggi quotidianamente, subendone pesanti conseguenze in termini di sviluppo, di equità sociale, di senso civico. Lo Stato, di fatto, non ha consentito a tutti di partecipare all’aumento della ricchezza del Paese. Se ci fosse stato più Stato (scusate il gioco di parole) con un “severo minimo di regole” uguali per tutti senza discrezionalità, avremmo sicuramente potuto contare su un reale e solido progresso sociale, economico e civile.