Tra comici e politica

Dov’è finito il tempo della serietà?

di Marta Boneschi –

In un clima dominato dal faceto si forma l’opinione pubblica e viene plasmata la cultura civica. Il serio è messo ai margini, patrimonio polveroso di pochi ricchi che leggono i libri, di stravaganti che rifiutano di mettere ogni cosa in ridere. La serietà divide lo stesso destino dell’onestà, non fa vincere punti percentuali e non fa diventare ricchi. Sciocchi i seri, stupidi gli onesti.

Roberto Benigni presenta alla televisione pubblica la Costituzione per farne uno spettacolo istruttivo. Luciana Litizzetto strappa le risate raccontando la politica della settimana. Quando descrive la scena politica italiana The Economist non omette di registrare la presenza ingombrante di “the comedian Beppe Grillo”. Maurizio Crozza si promuove come maître à penser della sinistra e Nichi Vendola come fine dicitore del medesimo pubblico. I comici di Striscia la notizia fungono da difensori dei consumatori e contribuenti, mentre il capo, Silvio Berlusconi, da quasi un ventennio occupa il palcoscenico con una pièce dietro l’altra.

In un clima dominato dal faceto si forma l’opinione pubblica e viene plasmata la cultura civica. Il serio è messo ai margini, patrimonio polveroso di pochi ricchi che leggono i libri, di stravaganti che rifiutano di mettere ogni cosa in ridere. La serietà divide lo stesso destino dell’onestà, non fa vincere punti percentuali e non fa diventare ricchi. Sciocchi i seri, stupidi gli onesti.

Nella nostra comunità, il comico prevale sulla scena pubblica come gli ottoni nei concerti delle bande musicali.  E invade i campi dove sarebbe auspicabile, oltre che efficace, attenersi alla serietà. Il comico, in quanto offre una prospettiva gradevole, aiuta a dimenticare e solleva l’animo, ma non risolve i problemi. Dà sollievo come un cerotto sull’infezione, ma non guarisce la ferita.

Amare il teatro a tal punto da innestarlo nella vita vera e fare della vita vera un teatro quotidiano, con pochi intervalli e innumerevoli colpi di scena, è un uso antico e ben radicato dalle nostre parti. Nel 1786 Wolfgang Goethe intraprende il suo Viaggio in Italia; cala dal Brennero, percorre la magnifica terra «dove fioriscono i limoni» e si sofferma sulle architetture e sulle opere d’arte. Poi arriva a Venezia e assiste a una rappresentazione delle Baruffe chiozzote di Carlo Goldoni, autore molto contestato di un teatro ispirato alla vita vera e non agli eroi e agli dei del mito classico.

«Finalmente posso anche dire d’aver assistito a una commedia!» scrive soddisfatto. Poi la commedia si estende alla vita. Calato il sipario, annota infatti: «Neppure m’era mai capitato di assistere a un’esplosione di gioia come quella cui s’abbandonò il pubblico, nel veder rappresentati così naturalmente se stessi e i propri simili: risa, grida di giubilo dal principio alla fine». Il viaggio prosegue e, durante una tappa, Goethe assiste di nuovo a una rappresentazione di teatro ancor più popolare di quella veneziana. Qui, alla fine dello spettacolo, il pubblico si mescola agli attori, chi pretende un finale diverso, chi esulta. Gli spettatori si confondono con gli attori, la vicenda narrata si fa improvvisazione veridica. Tutto è teatro, e il popolo si diverte e si consola.

Questa abitudine non è cambiata nella sostanza, ma soltanto nei mezzi, i quali oggi sono tecnologicamente avanzati per una comunicazione globale e ininterrotta. Volgere in riso se stessi e i propri simili resiste ai secoli, come passatempo prediletto. Visto da lontano, questo uso non può che suscitare l’ironia, quella dell’Economist quando aggiorna i lettori sui comedians, dilettanti o professionisti che fanno girare la vita pubblica italiana: il popolo ti ascolta, se gli prometti lo spasso, ma questo non è un costume di alta civiltà. Tutto questo non sarebbe in sè un male, se il riso lasciasse uno spazio appropriato ad altri generi, altri toni, altri modi di esprimersi e di comunicare. Un po’ meno di ottoni, un po’ più di fiati e archi, e la musica acquista pregio, chi ascolta affina l’orecchio.

Il fatto che la Costituzione della Repubblica non sia illustrata a scuola ma in televisione, e per giunta in uno spettacolo di satira, ha qualcosa di patologico. Meglio di niente, commenta qualcuno. Certo, l’intenzione è buona, il comico eccellente, e adeguatamente supportato da esperti. Però la coscienza civile non si forma soltanto davanti al teleschermo, e la memoria delle battute non ha lo stesso peso delle nozioni lette, meditate, ripetute e consolidate dall’esperienza. Come nota Claudia Mancina, lo slogan “la più bella del mondo” per definire la Costituzione italiana può fuorviare, soprattutto perché allontana l’idea che la Costituzione possa essere migliorata e adattata ai tempi e alle condizioni.

Qui si evidenzia un’altra falla della cultura italiana, quella che la sua diffusione debba svolgersi esclusivamente ai più bassi livelli: i professori sono soporiferi, i comunicatori poco colti ma i comici molto apprezzati. Quel che manca è una via di mezzo, scarseggiano i divulgatori capaci e accattivanti (il termine “divulgatore” è usato spesso come spregiativo) e si perpetua così la distanza tra una cultura alta, e la rozza ignoranza diffusa nella stragrande maggioranza del pubblico. A questo proposito è illuminante quanto ha scritto Tommaso Codignola su Lib21 a proposito del mercato dei libri, dal quale scappano a rotta di collo i lettori forti, cioè quelli appartenenti al ceto medio colto, desideroso di prodotti di qualità ma non necessariamente specialistici, e poco attratto dal libro di massa, di poca sostanza e dall’usa e getta.

Il risultato di tante risate è sotto i nostri occhi: dopo un’esperienza amara durata quasi vent’anni, possiamo concludere che il successo berlusconiano (seguito da quello grillesco) è in gran parte dovuto alla capacità di fare della politica un cabaret non stop, una gaia mistificazione di ogni fatto e di ogni opinione. Quando l’autore-attore-personaggio politico si identifica con i propri simili e questi si identificano con lui (o lei), «risa, grida di giubilo dal principio alla fine» si scatenano. Come dimenticare l’intreccio perverso di congiuntivi e condizionali di Silvio Berlusconi, l’infantile gesto delle corna, le barzellette osées e altre prestazioni, tutte capaci di mettere i discorsi presidenziali sullo stesso piano della chiacchiera da bar, sintassi compresa?

Il punto è soltanto questo: non c’è niente di male nella capacità di ridere di se stessi e degli altri, purché esista un’area immune dal frizzo e dal lazzo. Tanto più in tempi critici, come quelli che stiamo attraversando, sarebbe meglio, oltre che sano, riservare uno spazio e un tempo – non confinato ai salotti raffinati o alle conventicole professionali – per imparare, riflettere e prendere posizione. Non c’è niente di noioso nell’impegno intellettuale, il quale non riserva «risa, grida di giubilo dal principio alla fine» ma regala la profonda soddisfazione di essere attivi protagonisti della vita propria e altrui, insomma cittadini veri e non soltanto spettatori, persone capaci di scegliere e non sudditi da manipolare. Corrado Augias, che in televisione ha offerto e continua a offrire discorsi seri sulla Costituzione, parla soltanto all’ora di pranzo, momento eccellente per pensionati e casalinghi, e non è purtroppo osannato come un comedian.

Dare spazio e tempo al serio, senza trascurare il faceto, è una mirabile conquista di civiltà. Potrebbe garantire la guarigione da un altro vizio antico, che è quello della polemica e della rissa, del lamento e dell’indignazione sterili (benché anche questi siano abitudini e atteggiamenti che procurano sollievo). Lo desideravano anche i nostri antenati più accorti, quelli che si davano da fare per costruire l’Italia libera e unita.

Stendhal rimproverava ai patrioti italiani l’eccesso di teatralità, la sostanza fanatica e irrazionale del loro agire. Pochi di quelli da lui conosciuti nell’ambiente dell’opposizione anti austriaca meritavano la sua stima, e molti invece avevano ispirato la figura di Ferrante Palla nella Certosa di Parma. Tra i primi contava Giuseppe Pecchio, «uomo di infinito spirito e di uno spirito ben raro in Italia, cioè immune da enfasi», collaboratore del Conciliatore, scrittore politico dall’esilio spagnolo e inglese, democratico infaticabile e malauguratamente dimenticato.

A Pecchio, alle sue Osservazioni semiserie di un esulte in Inghilterra, siamo debitori di una limpida descrizione di come facevano politica teatrale, o teatro politico, i nostri cospiratori falliti – ma ben riusciti esuli – nei tardi anni Venti dell’Ottocento: «molta immaginazione, molta sensibilità, molta ambizione, vanità ancor più che vera ambizione ed un’irritabilità e inquietudine in estremo grado. Non fa dunque meraviglia se dove tali elementi sono in abbondanza si vedano discordie, querele e dispute senza fine, continui lamenti…». Insomma anche questi recitano le “baruffe” nei modi osservati da Goethe.

La confusione tra serio e faceto pervade i gesti quotidiani: applaudiamo ai funerali e ridiamo dei politici adulteri e ladri (qualcuno ricorda senza sghignazzare il deputato Alfonso Papa fotografato mentre tratta orologi con un ricettatore?). Ascoltare gli articoli della Costituzione ridendo di Berlusconi non contribuisce a formare una coscienza civica più di quanto un corteo sindacale per il lavoro serva a mitigare la disoccupazione. Così come non esiste “una” soluzione al declino morale e materiale che stiamo attraversando, non esiste “una” sola tonalità, il comico, per esprimere la realtà, e non è sghignazzando che si può modificarla.