Lo stato e il mercato siamo noi!

di Lapo Berti

“Più stato” e “Più mercato” sono slogan vacui, semplicistici, infantili. Sono il rifugio di chi ha paura di affrontare la complessità della realtà e di confrontarsi con il compito duro, quotidiano, di trovare soluzioni sempre nuove alle alternative che il cammino dentro la realtà continuamente ci propone.

Il caso Finmeccanica

Con buona pace di tutti coloro che continuano pervicacemente a invocare “Più stato” per porre rimedio ai mali, inevitabili, del capitalismo, il caso Finmeccanica sta lì a ricordare che, nella realtà, le cose sono assai più complesse e contraddittorie. Non basta dire “stato” perché le cose vadano bene e volgano verso l’interesse pubblico, perché lo stato non esiste indipendentemente dagli uomini che di volta in volta lo rappresentano e lo fanno agire e questi uomini, come c’insegna un’esperienza secolare, sono spesso più inclini a seguire il loro privato interesse che quello di tutti.

“Più stato” e “Più mercato” sono slogan vacui, semplicistici, infantili. Sono il rifugio di chi ha paura di affrontare la complessità della realtà e di confrontarsi con il compito duro, quotidiano, di trovare soluzioni sempre nuove alle alternative che il cammino dentro la realtà continuamente ci propone. Purtroppo per noi, che però dovremmo saperlo bene e non dovremmo illuderci che possa essere altrimenti, stato e mercato sono istituzioni imperfette, come tutte le cose create dagli uomini, e hanno continuamente bisogno di correttivi, di controlli. Non ci sarà mai un mercato perfetto che risolve tutti i problemi di benessere e di equità, come non ci sarà mai uno stato perfettamente benevolo e onnisciente che gestisce l’economia e la società per il bene di tutti. Ci sarà invece sempre il bisogno di dibattere e di combattere su quelle che di volta in volta si ritengono e si rivelano essere le soluzioni più adeguate ai problemi che i cittadini maggiormente avvertono. Ma non saranno mai durature e si dovrà sempre ricominciare. Immer wieder, sempre di nuovo, come dice il filosofo.

Già che ci siamo, vale la pena di soffermarsi qualche istante sul caso Finmeccanica, perché esso è emblematico di un problema che è speculare rispetto a quello rappresentato dagli eccessi del capitalismo finanziario ossia il problema della corruzione politica. Il presidente e amministratore delegato Guarguaglini, nominato il 24 aprile 2002, come sta rivelando l’inchiesta giudiziaria in atto, invece di preoccuparsi di valorizzare l’impresa che gli era stata affidata, è stato per anni al centro di una rete di malaffare e di finanziamento illecito della politica. Con il sistema delle fatturazioni artificialmente gonfiate, si sono ricavate, a danno dell’impresa e, in generale, dell’economia italiana ingenti risorse finanziarie riversate in un fiume di tangenti. Come non bastasse, a Guarguaglini si è affiancata, nel febbraio 2005, la moglie, Marina Grossi, nominata dal marito, non si sa per quale ragione e sulla base di quali competenze, amministratore delegato di Selex Sistemi Integrati, una controllata di Finmeccanica nata sulle ceneri di Alenia. Questo gigantesco sistema di corruzione è completato dalla presenza, ai vertici delle aziende facenti capo a Finmeccanica, di dirigenti nominati dai partiti e impegnati, ovviamente, a distogliere risorse dalla produzione e dagli investimenti per convogliarle verso i partiti di riferimento. Il sistema, perché di questo si tratta, aveva anche una sorta di organo di governo, il cosiddetto “tavolo delle nomine”, a cui sedevano, nell’ambito del Governo, gli esponenti dei diversi partiti della maggioranza. E’ appena il caso di osservare che Guarguaglini godeva di solidi agganci nel mondo della politica, da Gianni Letta e Altiero Matteoli a Giuliano Amato, e che ha potuto spadroneggiare in Finmeccanica senza che nessun media se ne accorgesse. Inevitabilmente, nel sistema lottizzato delle nomine, secondo i magistrati, sarebbero coinvolti anche i partiti di opposizione.

Come risultato di tutto ciò, un titolo che, ancora nel 2007, quotava intorno a 20 euro ha visto scendere il suo valore a poco più di 3 euro, con una perdita per gli azionisti di oltre l’80%. Solo negli ultimi sei mesi ha perso il 67% del suo valore di Borsa. Ciò significa che si è svalutata in questa misura non solo la quota di circa il 30% detenuta in Finmeccanica dal Tesoro, ma anche quella detenuta da tutti i cittadini, tra cui 23.000 dipendenti, che, seguendo anche il consiglio dei sindacati, nel giugno 2000 si erano fatti coinvolgere nella privatizzazione parziale del colosso pubblico e ne avevano acquistato i titoli confidando nella bontà di un investimento dietro il quale c’era la “garanzia” pubblica. Ma non basta: una volta scoppiato lo scandalo, Guarguaglini è costretto a dimettersi, ma in cambio del disastro economico perpetrato ai danni dell’industria e delle casse dello stato italiano viene ricompensato con una sontuosa liquidazione di 5,6 milioni di euro che non ha nessuna giustificazione economica, ma risponde, evidentemente, alle regole non scritte dello sciagurato “capitalismo relazionale”, come normalmente si definisce, con termini quasi accattivanti, il perverso e spesso criminale intreccio fra grandi imprese, pubbliche e private, e uomini di governo e dei partiti. Successivamente, anche la moglie, accusata di corruzione e frode fiscale, è stata costretta a dimettersi, ma la storia non cambierà, cambierà solo la cifra.

Tutto questo ci dovrebbe rendere più prudenti, quando parliamo di pregi e difetti dello stato e del mercato e ci dovrebbe ricordare che sia l’economia sia la politica sono fatte da uomini e che questi uomini sono esposti alla tentazione del potere e della ricchezza, per non dire che spesso scelgono di impegnarsi nel mondo dell’economia e della politica proprio in vista del potere e della ricchezza che gliene può derivare. Ed è noto che la corruzione, la collusione, la violazione delle regole scritte e non scritte, sono scorciatoie attraenti da sempre praticate. Da quando mondo è mondo non c’è stata regola morale né istituzione sociale che sia stata in grado di porre sotto controllo una volta per tutte le pulsioni socialmente distruttive scatenate da questi fattori.

La conclusione è che non esistono formule magiche, come “più stato” o “più mercato”, con cui i grandi semplificatori vorrebbero esorcizzare le minacce e le prevaricazioni della ricchezza, ma esiste solo la fatica quotidiana della partecipazione democratica ai processi che decidono del destino di tutti. E’ una fatica, lo sappiamo bene, spesso disperante, ma non di meno necessaria. Solo la presenza di cittadini vigili e attivi, decisi a far valere i loro diritti e la loro volontà, può costituire un antidoto efficace agli eterni richiami della ricchezza facile e della corruzione.