Quali cose siamo

di Paolo Deganello

Oggi nella postmodernità vi è un ritorno alla qualità nel design, alla ricerca del piacere estetico che produce la fruizione di un’opera d’arte, garantita a molti, perché, come il prodotto industriale, anche l’opera d’arte con le nuove tecnologie è perfettamente riproducibile in più copie. Oggi è la qualità dell’opera e non il suo processo produttivo o il suo essere un bene esclusivo più o meno diffuso che gli dà significato. E’ la fruizione della forma, che concede il piacere estetico.

Il valore primo di ogni prodotto sta nelle ragioni per cui un oggetto è entrato nella nostra vita, sia o non sia opera di design. Ci troviamo di fronte ad una nuova definizione del valore della merce. Un prodotto vale in quanto entra a far parte della nostra storia e nella misura in cui migliora complessivamente, e quindi anche esteticamente, la qualità della nostra vita.

La disciplina del design segna il passaggio dal prodotto artigianale al prodotto industriale, dalla copia riprodotta in numero limitato del prodotto artigianale alla serie teoricamente illimitata della Ford T sempre nera. Henry Ford che nel 1910 introdusse la prima catena di montaggio moderna accrescendo a dismisura la produttività del lavoro, proprio attraverso la catena di montaggio aveva anche aumentato molto i salari dei suoi operai e l’occupazione, realizzando quel “circolo virtuoso” che permetteva ai suoi operai di comprarsi quell’auto uguale per tutti e sempre nera che producevano. Con la Ford T e non con le sedie Bauhaus inizia la disciplina del design.

Con la catena di montaggio e la grande serie, la società moderna intendeva offrire a tutti, o per lo meno anche a tutta quella classe operaia e a quella società di produttori che quei prodotti costruiva, il bene di consumo ben disegnato, come la Ford T e tutti gli altri prodotti industriali che il design, la pubblicità, i mass media avevano il compito di rendere i più belli e desiderabili possibili.

Il movimento moderno attraverso la merce ben disegnata e alla sua massificazione resa possibile dalla grande industria e dalla grande produzione di serie doveva usare la merce, ben disegnata dai designer per massificare l’estetico, in modo che non fosse solo privilegio di quelli che potevano permettersi l’arte e l’alto artigianato. Questo perché col movimento moderno una merce accessibile ai più e ben disegnata, grazie al design, poteva entrare nella vita delle masse, nella casa di tutti.

La mostra di Alessandro Mendini “Quali cose siamo” 3ª edizione annuale del Museo del design della Triennale di Milano del 2010 tra le molte cose che ha cercato di comunicare, ha indicato prima di tutto che il moderno e la grande industria o hanno fallito questo obiettivo o hanno generato per reazione il recupero di una dimensione artigianale, della piccola serie, del prototipo, del pezzo unico e delle sue copie limitate. E, soprattutto, auspicato e promosso anche da tutto il lavoro progettuale di Mendini, appare il ritorno all’arte quale condizione prioritaria e quale unico garante dell’estetico.

E´ compito dei mass media più che delle merci, attraverso la divulgazione dell’immagine assumersi il compito di massificare l’estetico. Inoltre in questo ritorno all’arte con disinvoltura si acquisisce che l’opera d’arte può essere, come il prodotto industriale, realizzata in più copie per il piacere di molti liberandosi dal limite dell’esclusiva e del privilegio. L’arte, con la perfezione che la tecnologia può oggi offrire alla copia, può non essere più un privilegio esclusivo, che esclude le “masse”, o aggiornando il termine “le moltitudini”.

I nuovi templi della massificazione dell’estetico non sono più i musei chiusi, ma neanche i supermarket come voleva il moderno, ma i molti musei aperti, le nuove cattedrali urbane che ormai si costruiscono spettacolari in ogni grande città, e che ormai mostrano opere d’arte e merci come si mostrarono le motociclette al Guggheneim. Ormai queste cattedrali sono parte di ogni itinerario turistico di massa e per sempre più articolate e differenziate moltitudini.

Il New York Times ha definito la mostra di Mendini l’evento culturale più importante nel mondo del 2010. Diamo per scontato che il New York Times si veda tutte le mostre del mondo e abbia gli elementi e la competenza per un giudizio tanto presuntuoso, è vero, comunque, che questa mostra è un evento eccezionale sia per l’originalità della risposta al tema “Museo del design”, che per il contesto temporale in cui è stata fatta. Forse un giorno verrà usata nella storia del design come la chiusura della disciplina del design moderno e l’inizio di una nuova disciplina del ” progetto degli oggetti d’uso”.

Per ora mi limito ad alcune osservazioni perché mi sembra un segno sapiente di una faccia di questa mutazione epocale, di cui parlano in molti, tra cui Saskia Sassen. Osservazioni e considerazioni che mi permettono di delineare alcune anticipazioni sulla fine della società industriale e su quella società del benessere che la società industriale avrebbe dovuto garantire e che a me e a molti altri sembra, invece, cominciare a concludersi con la crisi del 2007- 2008, che si vuol far passare per crisi finanziaria, ma che in realtà, come dice giustamente il filosofo Alberto Burgio” non è che un dispositivo economico, politico e mediatico funzionale allo spostamento di ricchezza (di titolo di proprietà) a vantaggio delle oligarchie possidenti“*. Una crisi tuttora aperta e dalla conclusione assolutamente non chiara.

La 3ª edizione annuale del Museo del design della Triennale di Milano, anno 2010, non inizia con la Ford T nè con le sedie Bauhaus, nè con i prodotti Braun disegnati da Diter Rams degli anni ’50-’70 ma con la copia perfetta, in scala 1:1 in marmo bianco di Carrara, del David di Michelangelo. Sembrava di marzapane dentro le stanze della Triennale, ma era in realtà in brillante marmo bianco di Carrara della fabbrica dei Cervietti.

E’, comunque, una copia perfetta, prodotto di serie per quanto limitata alla piccola serie. Il senso della mostra è chiaramente espresso dalla didascalia sul retro del catalogo: “Oggetti di altissimo artigianato, oggetti di uso comune, oggetti sul confine fra arte e design. Soprattutto oggetti usati. Triennale Design Museum vuole suggerire che è nell’uso che sta scritto il destino delle cose, e che solo usandole, le cose, ci è possibile sperare di capire quali cose siamo”.

La fabbrica di statue in marmo dei Cervietti è attiva a Pietrasanta dal 1962. Ha un repertorio classico molto vasto, con commissioni dal Vaticano a Versailles, a Taiwan, agli USA Sviluppa in marmo anche opere molto complesse di vari artisti fra i quali Marc Quin, Jeff Koons e Fernando Botero e possiede una gipsoteca di oltre duemila pezzi. Questo David in gesso è stato realizzato in base a tecniche di rilevamento esattissime ed è alto 4.10 m (5.17 con la base ). Da esso sono stati tratti 5 esemplari in marmo statuario di Carrara (come quello originale, fabbricati su ordinazione). Un David in marmo costa circa 200.000 euro, costo equivalente al modello economico di una Ferrari. Michelangelo scolpì il David a Firenze all’età di 26 anni, impiegando circa tre anni. Il David è certamente uno dei capolavori del genio umano che può garantire il piacere estetico acquisito, consolidato, opera del designer Michelangelo. Ora grazie a quel perverso di Mendini fa parte, naturalmente in copia, della collezione per il Museo del Design della Triennale. Maestria artigianale ed evoluzione della tecnica nella costruzione della forma, non certo catena di montaggio, ci permettono oggi di poter avere in una piazza di Seul, come in una di Kuala Lumpur o di Luanda, il David di Michelangelo in copia al vero senza dover fare code di ore per vedere l’originale, perfettamente uguale all’originale esposto all’Accademia di Firenze. Come del resto si vede copia del David in piazza della Signoria a Firenze che immagino realizzato dalla Franco Cervietti & C. Di copie del David nelle diverse scale, da piccolo soprammobile in plastica o marmo, a scultura in scala ridotta in marmo di Carrara, come delle gondole veneziane c’è sempre stata grande disponibilità nei negozi della stazione dei treni di Firenze, come nei negozi di copie di scultura nei lungarni fiorentini. Ma cinque copie di una produzione di serie perfetta al vero in marmo di Carrara, fin ora realizzate, siamo costretti a prenderne atto dopo la mostra di Mendini.

Il David può essere un prodotto di serie come le sedie di Jasper Morrison, è diverso il prezzo, ma cosa ci impedisce di pensare che le cinque copie arrivino per lo meno allo stesso numero di serie del modello più diffuso della Ferrari? Mendini ci fa notare che tutte le opere d’arte con le tecniche di scansione bidimensionale e tridimensionale oggi possiamo produrle in serie a prezzi ragionevoli. Qualsiasi opera d’arte può oggi, quindi, essere prodotta in serie, riportata sul quadrante di un orologio Swatch, sullo schienale di una sedia sulle ante di un mobile, serigrafata su qualsiasi laminato, e via dicendo. I prodotti di arredo disegnati dall’architetto, scultore, pittore, Le Courbusier, prodotti dalla Cassina, fanno ancora oggi la fortuna di quest’azienda. Una poltrona di Corbu, per esempio la chaise longe, oggi si può comprare su internet a www.DesignFurniture.com per € 649.00.

Deyan Sudjic ci racconta nel suo libro “Il linguaggio delle cose ” che la “Lockheed Lounge”, la Poltrona disegnata da Mac Newson “è stata venduta all’asta ad un prezzo dichiarato appena al di sotto del milione di dollari”. Ne esistono solo dieci copie, cinque più del David. I designer aspirano ad essere artisti, come afferma Sudjic o è proprio il progressivo spostamento della ricchezza verso una minoranza sempre più ricca, tragica involuzione del tempo presente, cinico tradimento delle finalità del moderno di Henry Ford, la ragione prima che porta un certo design a mimare comportamenti e logiche dell’opera d’arte? E’ l’arte e non il design quella merce che può essere prodotta in serie, per gratificare il bisogno estetico? Perché questo non avviene per il cinema, sempre più eccezionale opera d’arte collettiva per le diversificate moltitudini e sta avvenendo sempre più per la fotografia, nata proprio come prodotto infinitamente riproducibile e ora riprodotto in serie numerata e venduto nelle gallerie?

La Poltrona di Proust, disegnata da Mendini (1979), utilizzava una “passata”, enfatica, sontuosa poltrona finemente intagliata in legno massello che lui colorava d’oro, come le cornici in legno massello dei quadri e degli specchi dell’epoca barocca. Una volta dipinta d’oro, la struttura-cornice, decorava l’imbottitura con una pennellatura divisionista ingigantita e diventava così, uno degli oggetti simbolo, una delle opere più emblematiche della post-modernità. L’artista/designer ne ha fatto diverse versioni cambiando la decorazione pittorica, ma “l’originale”, l’opera immortalata in una miriade di immagini, sui mass media, resta la versione con il divisionismo ingigantito. Mendini con la sua mostra ci fa prendere atto che le grandi promesse della modernità, di una nuova dimensione del consumo delle merci dotate di qualità estetica grazie al design hanno retto per i gloriosi trenta anni della modernità (1951-1981), ma oggi con la post modernità, con la crescita vertiginosa e progressiva di una minoranza sempre più ricca e di una maggioranza sempre più incapace di comprarsi l’equivalente della Ford T si è creata una situazione socio-economica che ripristina la superiorità del privilegio , del pezzo unico.

Poi il pezzo unico, il capolavoro dato in pasto ai mass media, può essere riprodotto copiato e l’arte può diventare prodotto di serie, come il prodotto di design firmato, e può essere venduto nelle gallerie o diventare opera d’arte in serie limitata, riconquistando così il prezzo dell’arte. Mendini sembra volerci dire che è la qualità dell’opera e non il suo processo produttivo o il suo essere un bene esclusivo o più o meno diffuso che dà significato e fruizione della forma, che concede il piacere estetico. L’indifferenza alle modalità produttive porta, inoltre, come conseguenza che il prodotto artigianale tecnologicamente aggiornato abbia la stessa dignità del prodotto industriale. Il prototipo, l’autoprodotto in piccole serie è l’equivalente del pezzo ben disegnato in grande serie e la massificazione dell’estetico, possibile solo con la grande serie, lo garantisce oggi attraverso la brutta copia.

L’IKEA, ad esempio è il frutto sia della globalizzazione della produzione che della riduzione, dequalificazione e semplificazione produttiva dell’oggetto di design e rappresenta la copia scadente della modernità. Una copia tutta solo immagine, di basso costo, di durata breve, di facile e continua obsolescenza del prodotto, assemblata dall’utente per ridurre i costi sia di spedizione che di produzione che il moderno ci lascia in eredità. Il prezzo ormai discrimina l’esclusività dell’opera e la sua riduzione, lo rende copia accessibile a molti.

La poltrona di Le Corbusier, così molte copie dei capolavori del Moderno, da Saarinen a Mies, si possono comprare ad un prezzo, direi, ridicolo per il prestigio che si portano dietro. La mostra di Mendini ha indicato il fallimento del design moderno, il suo ulteriore fallimento nel rincorrere la volgarità del lusso, della sua aspirazione all’esclusiva misurata sul prezzo, e rispetto al cinema, la grande questione irrisolta, cioè il suo non essere riuscito a diventare opera d’arte per tutti.

La Mostra di Mendini non solo ha ridato pari dignità al prodotto artigianale rispetto al prodotto industriale, non solo ha riconosciuto all’arte la dignità di essere copia ma ha affermato un altro principio fondamentale: “Quali oggetti noi siamo. Il valore primo di ogni prodotto sta nelle ragioni per cui un prodotto è entrato nella nostra vita”. “Quali cose siamo” dà valore prioritario all’oggetto comunque sia stato prodotto, in quanto lo scegliamo, lo acquistiamo, lo riceviamo come regalo, in quanto entra a far parte della nostra storia, del nostro vissuto, per questo prima di tutto ha valore. Sia o non sia opera di design questo è un fatto secondario. Questa è una nuova definizione del valore della merce. Un prodotto vale in quanto l’ho ritenuto degno di portarlo nella mia vita. Questo concetto è un grande contributo alla cultura del progetto perché potrebbe essere così tradotto, penso oltre le intenzioni di Mendini: la merce ha valore nella misura in cui migliora complessivamente, e quindi anche esteticamente la qualità della mia vita, che poi significa che compito del progetto non è costruire e produrre o progettare per produrre, ma progettare solo merci che migliorano la qualità della vita delle moltitudini.

Una merce che inquina, una merce che distrugge risorse, che viene prodotta pagando il lavoro con compensi da fame – è una risorsa che non può essere sprecata e avvilita -, che degrada l’ambiente in cui viviamo, la nostra piccola unica terra, che distrugge le possibilità di sopravvivenza e di qualità della vita di interi territori, che costringe all’emigrazione, alla ricerca della sopravvivenza da parte di intere popolazioni, che produce un miliardo di affamati e un miliardo di obesi, ubriachi di abbondanza. Ecco quella merce non deve essere nè progettata nè prodotta nè abbellita nè dal nostro design, nè dall’arte.

* Alberto Burgio “L’austerity necessaria, ma al contrario. Il manifesto 13 Agosto 2011