Riforma del lavoro

Ma dove sono i precari?

di Rossella Aprea

La riforma del mercato del lavoro è sulla scena politica in queste ultime settimane, destando polemiche e discussioni, accese o moderate, ma soprattuto alimentando preoccupazioni e perplessità. L’attenzione centrata sull’art.18 e l’ossessivo imperativo della flessibilità invocato in una realtà, quella italiana, in cui il problema non è quello di garantire l’uscita dal mercato del lavoro, ma di favorirne e tutelarne semmai l’entrata, sono indicativi delle scelte che potrebbero essere assunte in assoluta discordanza con il Paese reale.

In questi giorni, forse perché mi sto occupando da alcuni mesi dell’inchiesta di LIB21 “Vita da precario”, mi sono sentita molto coinvolta nella vicenda della riforma del mercato del lavoro. Ho letto articoli di fondo di illustri giornalisti, resoconti, ipotesi, schemi di lavoro che sono nell’agenda del governo e una sarabanda di interventi modificativi che sarebbero allo studio e che la metà basterebbe per spingere chiunque ad alimentare un sano e sereno sentimento di distacco dalla vicenda. Eppure a me non è ancora bastato, perché tutto questo è indicativo di un certo modo di fare informazione e di un certo modo di fare politica. Modi vecchi e inadeguati gli uni e gli altri, superati, privi di interesse, spesso fatti di vuoto e inutile chiacchiericcio, basati più sulle opinioni e su presunti scoop o colpi ad effetto piuttosto che su notizie verificate o sulla qualità dell’analisi.

Tutto questo mi disturba, ma da solo non basta a spiegare la sensazione di perplessità e preoccupazione che provo per le modalità con cui si sta conducendo questa discussione sul tema del lavoro. La sensazione è che, sulla scena del governo, ci si trovi di fronte a un cambio di attori, dotati senza dubbio di maggiore credibilità e competenza, che rendono sicuramente lo spettacolo più interessante per il Paese, suscitando ragguardevoli e forse in qualche caso anche eccessive aspettative, ma con un lieto fine che anche stavolta rischia di non esserci. Permane, in forme diverse, la sensazione che il Paese reale non abbia ancora fatto il suo ingresso in Parlamento, che dei medici esperti, chiamati al capezzale di un malato lo stiano operando chirurgicamente, ma che manchino di una visione olistica, che seguano e inseguano cifre, accordi e direttive, ma non ascoltino quanto pulsa a fatica il cuore del Paese, quali ferite lo stiano lacerando nel profondo. Soprattutto che non abbiano tempo per farlo. E la fretta, l’urgenza, per quanto gestite con la dovuta lucidità, sono sempre cattive consigliere. E qui di tempo sembra essercene poco, sempre meno.

Chissà perché questo Paese deve lavorare sempre in emergenza e non riuscire ad assumere decisioni e cambiamenti in periodi di tranquillità. Nelle emergenze pare che diamo il meglio di noi, ci rendiamo conto che non possiamo più bighellonare e vivacchiare, e così ci dobbiamo finalmente assumere una responsabilità. Non ci possiamo più sottrarre, ma a quel punto, come è capitato per la Costa Concordia, se chi comanda è all’altezza, si riuscirà a rimediare, altrimenti si rischia seriamente di colare a picco e, dal momento che il Paese pullula di incapaci e parassiti, collocati spesso in posti chiave, se ne traggano le conseguenze. Siamo un popolo da sirena spiegata e questo non dovrebbe renderci orgogliosi.

E così arriviamo all’emergenza di questi mesi, un governo politico congelato, sostituito da un governo tecnico, costretto a muoversi trascinandosi la zavorra dei consensi di un Parlamento che è stato incapace di esprimere un governo efficiente. Non è critica spicciola, è pura constatazione dei fatti. A questo governo tecnico, che nessun rapporto ha maturato negli anni con il Paese, viene affidato il compito di fare, fare riforme che per decenni sono rimaste nel cassetto, creando situazioni insostenibili, di procedere con una tabella di marcia serrata, serratissima, con una data di scadenza appiccicata addosso come un prodotto alimentare deteriorabile, in un Paese rimbambito dal benessere. Un Paese costretto solo dagli eventi economici, dalle speculazioni finanziarie internazionali e non per una sua resipiscenza, a rendersi conto che è sull’orlo del fallimento in un crescendo di stupita incredulità. Un Paese che subisce per genetica millenaria le incursioni barbariche della prima e della seconda Repubblica, che si adatta, che sviluppa un individualismo sempre più cattivo e che perde definitivamente la concezione di cittadino attivo e responsabile, che era riuscito a conquistarsi per breve tempo durante la drammatica esperienza della Resistenza. Un Paese che aspetta, aspetta che qualcun altro risolva i problemi, che salvi il Paese, che gli garantisca un posto di lavoro grazie a un amico compiacente, che non chiede il rispetto delle regole, ma prova ad aggirarle, che non protesta per un sistema di tassazione iniquo, ma semplicemente lo evade. Questa, purtroppo, è la fotografia del Paese, in cui molti non si riconosceranno, fortunatamente, ma sono ancora pochi, isolati ed emarginati.

Questa lunga premessa, mentre si osserva l’azione del governo per la riforma del mercato del lavoro. Una riforma indispensabile in un Paese ingessato e sclerotizzato, una riforma che urge, ma non perché ce lo chiede l’Europa o ce lo chiedono le multinazionali, come proclamano i giornali e come dichiara il Ministro Fornero, ma perché ce lo chiedono i nostri figli.

Non aver sentito nessuno pronunciare questa frase, mi fa provare un acuto senso di smarrimento. Seppure della Fornero ho stima e considerazione per la fermezza, l’onestà intellettuale, il rigore professionale, non di meno dai soggetti seduti ai tavoli della riforma non si avvertono segnali di cambiamento, si avvertono solo confuse e balbettanti dichiarazioni di solidarietà sociale, che dovrebbe essere, invece, al centro di questa trattativa. I giornali mostrano due fronti contrapposti, Fornero e sindacati, e al centro l’oggetto della contesa, l’art. 18. Chi lo difende, i sindacati, lo considera un intoccabile diritto acquisito dai lavoratori, e chi lo vorrebbe scalzare si appella alla flessibilità a cui bisognerebbe puntare per rivitalizzare un mercato del lavoro asfittico e impoverito.

La riforma passerà in tre settimane, tuona la Fornero, con o senza sindacati. Un bellissimo romanzo di Joseph Cronin s’intitolava “e le stelle stanno a guardare”. In questo caso, le stelle sono i precari che assisteranno a una decisione epocale, che inciderà, condizionandole pesantemente, sulle loro vite, i quali, a parte qualche timido tentativo (es. il decalogo de Il nostro tempo è adesso, un incontro con la Camusso e qualche altra iniziativa isolata) non sono riusciti a esprimere coralmente la loro voglia di esserci, di determinare il proprio futuro, di avere diritto a sedere a quel tavolo e a essere considerati e rispettati dai “vecchi” rappresentanti che operano ancora secondo “vecchi” sistemi e modalità. Precari e giovani incapaci di esprimere un autentico spirito di coesione sociale, una luce, la propria intelligenza. Passivi. Aspettano.

Aspettano che coloro – sindacati e governo – che li hanno ignorati sino a oggi, che li hanno costretti per anni a subire forme di sfruttamento professionale inaccettabili, prevedendo 23 tipi diversi di contratto con 49 modalità di applicazione “elargiscano” una riforma che li salvi dal precariato, da una vita dominata dall’angoscia e dalla mortificazione.

Mi domando come fanno a credere di essere salvati, quando coloro che siedono a quel tavolo mostrano palesemente di non conoscere, e tanto meno di volerla conoscere, la loro realtà, la loro quotidianità, oltre a mostrare palesemente e in diverse occasioni di non stimarli né rispettarli. Dichiarazioni come quelle di Michel Martone, di Elsa Fornero, di Anna Maria Cancellieri e dello stesso Mario Monti, che si sono udite in questi giorni sono indicative. Messaggi forse lanciati per preparare la collettività ad accettare modifiche che daranno più attenzione alle necessità del mercato e delle imprese, che a quelle delle persone.

Come può avere un futuro un Paese che non crede nei propri giovani, che non li coinvolge nei cambiamenti, che non li stima? E come possono credere questi giovani di poter ottenere quella stima, di poter raggiungere una qualità di vita e di lavoro accettabili senza essere riusciti a chiedere con determinazione di partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano?

Mi domando allora “ma i precari dove sono?”. Per le imprese e il governo, come categoria non esistono, come singoli appaiono deboli e smarriti, mentre il mondo della finanza, dell’economia e dell’imprenditoria detta imperiosamente le sue regole non scritte e li divora. Eppure, proprio dai giovani e dal loro futuro si dovrebbe partire per combattere la disuguaglianza, che è il dramma della nostra società, espresso con evidenza da questa crisi, se si intende realmente questa disuguaglianza eliminarla o quanto meno cominciare a ridurla. Si vuole veramente intervenire per rendere decorosa e vivibile la condizione “dei precari” o invece, procedere a stabilizzarne la condizione “di precari”, e magari precarizzare anche gli stabilizzati in nome di una flessibilità, che non potrà essere prodotta allo stato attuale nel mercato italiano, perché il sistema è malato? Un sistema malato non può produrre qualcosa di sano: la flessibilità. Il problema attuale nel mercato del lavoro non è la mancanza di flessibilità, ma la mancanza assoluta di tutele per chi cerca un lavoro. Basterebbe parlare cinque minuti con un precario per capirlo, ma a quel tavolo nessuno ha pensato che i precari avessero diritto di esserci, anche solo per testimoniare la loro condizione. Ecco perché le parole di Monti bruciano ancora di più, perché non rappresentano solo una battuta infelice, ma rivelano il disinteresse o l’incomprensione verso la drammatica realtà in cui è costretta a vivere una larga parte attiva del Paese. I giovani non cercano e non si illudono più di trovare un lavoro stabile, spesso abbandonano l’idea di un sogno da realizzare ma aspirano solo a diventare precari e ad avere un lavoro qualunque. Voler imporre la flessibilità in un sistema che è strutturato sull’obbligo di fornire garanzie di stabilità (per ottenere un mutuo, l’affitto di una casa, etc.) è assolutamente inconcepibile. Ogni ingranaggio di questo Paese fa leva su un’anomala quanto già diffusa forma di flessibilità: l’abuso flessibile, lavoro precario ad alto sfruttamento qualitativo e a basso, bassissimo compenso, consentito, accettato e persino autorizzato attraverso una normativa le cui maglie larghe e imprecise ne hanno moltiplicato la varietà di forme.

Le vittime di un sistema non possono essere colpevolizzate da chi dovrebbe salvarle e restituirgli la dignità e il rispetto di cui sono state private, perché far passare il concetto che quasi “se la siano cercata”, perché aspirerebbero al posto fisso o non si sarebbero laureati in tempo, è inaccettabile quanto, se non più degli abusi che vengono praticati continuamente e quotidianamente ai loro danni. Abusi e forme di sfruttamento messe in atto da tutti i datori di lavoro – amministrazioni pubbliche e imprese private. Tutti silenziosamente complici.

Si vedranno nei fatti le decisioni che verranno assunte, ma è chiaro che se si lascerà in vita una pletora di contratti, se non verranno stabilite forme contrattuali “blindate”, senza eccezioni o scappatoie, se la riforma non conterrà articoli definiti inequivocabilmente, se si intaccherà il principio sotteso dall’art. 18 senza un consistente e convincente pacchetto di ammortizzatori sociali, se il sistema socio-economico di questo Paese si baserà ancora sull’obbligo di fornire garanzie di stabilità, la riforma contribuirà solo a cristallizzare e aggravare l’attuale condizione dei precari. E sarà la dimostrazione tangibile dell’esistenza e del predominio di una volontà di gruppi economici e di potere che contrasta con l’interesse del Paese. Al contempo costituirà la riprova che soltanto attraverso un’azione collettiva consapevole, determinata e fiera i precari conquisteranno quel diritto a sedersi a una mensa, dove finalmente sarà concesso anche a loro di rifocillarsi.

Il mercato del lavoro sono i precari, perché il mercato è fatto soprattutto di persone, non solo di interessi economici.