Una tartaruga tra le gazzelle: storia di una disabilità – II

La perdita improvvisa di autonomia: la reazione di chi si trova a viverla e quella dei familiari. Il rapporto tra genitori e figli e la possibilità di cogliere quel cambiamento per rendere quel legame più profondo e aperto alla vita che si rigenera.

(Link alla I parte)

La gente non è abituata ad affrontare l’handicap: il brutto, il deforme, il folle, il diverso li spaventa. Nella maggior parte dei casi mostravano compassione, in altri disagio e raramente quel fastidio per il quale noi, comunque, ci scusavamo. Rispondevamo alle loro reazioni con il sorriso e con l’ironia. Eravamo noi, a cercare di togliere dall’imbarazzo gli altri o a allontanare quell’espressione di pena che affiorava sui loro volti alla vista di mio padre “tartaruga”. Mio padre con gli altri si scusava, ma riversava la sua rabbia su di noi, la sua famiglia. Moglie e figli erano oggetto dei suoi scatti d’ira, dei suoi moti di pianto improvvisi, delle sue vere e proprie forme di ricatto e crudeltà psicologiche ed emotive. Il suo egoismo era diventato esasperato. Nessuno sa o può immaginare dietro il problema concreto ed evidente della mobilità di un disabile, quale universo di difficoltà umane, interpersonali, psicologiche si annidano. La famiglia è e resta sola ad affrontarle. 

Ricoveri per alcuni mesi in centri specializzati, fisioterapia tutti i giorni e da quel momento per tutta la vita. Attrezzatura da procurarsi: treppiedi, carrozzella, pazienza e tanta forza fisica. Sollevare un uomo di 70 Kg circa, debole e parzialmente inerte richiede molta energia. 

Vita dimezzata per sempre, e soprattutto dipendente. L’uomo forte che dominava, che gestiva, che costituiva il punto di riferimento era una mente ancora viva, energica intrappolata in un corpo estraneo, che non rispondeva più alle richieste. Il tempo – giorni, mesi, anni – trascorso passando faticosamente da una sedia ad un’altra costituivano una sofferenza anche per la mente, per l’umore, per la voglia di vivere, che non era mai stata così forte, ma che da sola non bastava a cambiare la sua condizione. Imparai e capii che in qualunque momento il nostro angolo visuale può cambiare completamente e bisogna essere pronti a farlo, se mai una qualunque ragione ci dovesse impedire di mantenere quello che avevamo. 

Imparai a programmare di meno e a vivere di più alla giornata. Imparai che ci sono tante vite e tante condizioni diverse e ognuno ha diritto alla sua dignità fino alla fine, ma la nostra società, questo mondo tecnologizzato e globalizzato, non ha più né posto, né rispetto per i deboli. Non ha spazio per loro, se non per commiserarli, ma questi individui non hanno bisogno di commiserazione. Hanno bisogno di sentirsi ancora parte della vita.

Quando le forze hanno cominciato sempre più ad abbandonare mio padre con il passare degli anni, la sua frase ricorrente era “Voglio morire !”. In realtà era una disperata richiesta di aiuto perché non fosse costretto ancora ad affrontare quel calvario. “Voglio morire !” e la voce si spegneva. Perciò non giudicate. Non giudichiamo mai! Chi siamo noi per decidere che, nonostante le condizioni in cui un individuo è costretto a vivere o sopravvivere, bisogna continuare e vegetare, dipendendo completamente e in tutto dagli altri, privati di qualunque dignità, avvertendo di essere diventati poco più di un oggetto e comunque un problema. 

Si può affrontare la propria disabilità in mille modi diversi: accettandola, contrastandola, subendola, odiandola, ma mai cancellandola. Tante volte mi sono chiesta se fosse capitato a me. Certe cose si possono capire solo vivendole in prima persona, ma non sono stata mai capace di darmi una risposta. In realtà non lo so e non sono mai riuscita neanche ad immaginarlo, quasi rifiutando di pensarci. Anch’io probabilmente non sarei abbastanza forte. 

Ogni volta che incontravo mio padre, cercavo di portargli un po’ di luce nel buio in cui l’ho sempre visto rinchiuso e rintanato.

Scherzavo, facevo battute e poi l’ho sempre amorevolmente accarezzato e abbracciato come si fa con un bambino. Mi sembrava l’unica cosa che potesse fargli bene e mi sembrava  l’unica cosa mia che potessi veramente offrirgli. Lui un po’ si schermiva, e un po’ si commuoveva. Con me si sfogava con poche, brevi, ma significative frasi. In quel momento apriva una porta sulla sua debolezza, riusciva a farmi entrare nella solitudine della sua condizione, per, poi, subito richiuderla, ricomponendosi nel ruolo di pater familias e di uomo forte e dignitoso, ma quel piccolo grido di aiuto, appena sussurrato, arrivava a me, che non potevo fare nulla per restituirgli il suo braccio e la sua gamba. A volte diceva “Del braccio destro potrei fare a meno, ma è l’uso della gamba. E’ la gamba che vorrei riavere”. La gamba gli avrebbe restituito un’autonomia che andava sempre più scemando. E io cosa potevo dirgli? Come potevo accompagnarlo nel tratto finale del suo cammino? Tutti e due sapevamo perfettamente, anche senza dircelo, che era iniziato un viaggio senza ritorno. Io rimuovevo l’idea per andare avanti, ma per lui non era possibile, ogni giorno combatteva con la debolezza della sua condizione. I medicinali servivano ad alleviare, a riequilibrare, a compensare, a stimolare, ma per quanto ancora il fisico avrebbe risposto alle sollecitazioni?

Come può un figlio accompagnare un genitore, assistere al suo progressivo spegnimento senza provare una pena, uno struggimento e un’impotenza dolorosamente piena? Che cosa avevo regalato a mio padre? […]  Cosa potevo regalargli nel suo ultimo percorso terreno amaro e sofferente ? La mia presenza sorridente e partecipe non era sufficiente, era solo un piccolo sfavillio di luce in un buio così profondo e continuo. Cosa avrei voluto che ci dicessimo in quel cammino che stavamo percorrendo insieme, ma distaccati, come sempre, nonostante i miei tentativi di avvicinarmi ? Mio padre era talmente concentrato sulla sua situazione, sulla sua rabbiosa recriminazione contro tutto e tutti che non era in grado di accorgersi veramente che mia madre, mio fratello e io eravamo accanto a lui e che avevamo ancora un’opportunità, l’ultima, di poterci dire finalmente con assoluta serenità e gioia cosa provavamo l’uno per l’altro, di poterci trasmettere quel fuoco, quell’energia di cui ognuno di noi è ricco per proseguire in futuro, anche separati, le nostre rispettive strade, sapendo però che ognuno di noi sarebbe sempre rimasto una luce per l’altro.

Mio padre perdeva, consumava e riempiva il suo tempo e le sue giornate in inutili, infantili comportamenti egoistici. […] Non sapeva trovare un linguaggio nuovo per comunicare con noi. […] Eppure io non ho mai avuto un dubbio sul fatto che quest’uomo così complicato, rabbioso, aggressivo e dominatore, nutrisse un amore profondo per noi, ma come un’infelice aquila ferita, non era mai stato capace di farlo volare. Avrebbe dovuto prenderci per mano, con l’unica mano valida, farci sedere accanto a sé e accarezzarci, come non aveva mai fatto da bambini, dirci quanto noi avevamo contato per lui e quanto lui contava ancora su di noi, trasmettendoci la ricchezza della sua esperienza e facendo un bilancio della sua vita, consegnandoci il suo ultimo messaggio-guida, anche il suo ultimo respiro per permettere a noi di volare come forse a lui non era riuscito.

Come avrei potuto fargli capire questo? Forse questo era il mio compito ? […] Con poche parole e pochi gesti avrebbe potuto liberarsi e liberarci da pesi di incomprensioni e rigidità eccessive di una vita. Bastava così poco. Un piccolo passo […] Com’è difficile! Com’è difficile essere figlio e dover essere io a dire a mio padre di essere padre fino in fondo, invece di aspettarsi solo quella mano affettuosa che si appoggia sul tuo capo, il cui ricordo ti consolerà per il resto dei tuoi giorni ! […] Come si può chiedere quando si dovrebbe solo aspettare di ricevere spontaneamente ? Ero io. Lo so. Ero sempre io a dover aiutare mio padre in questo. Per l’ennesima volta, il carico mi sembrava troppo grande per me […] Toccava di nuovo a me, da sola. Mi confortava il pensiero che tutte le altre difficili e dolorose prove a cui mi ero sottoposta in passato, erano state affrontate, superate, anche se ancora oggi mi domando come fosse stato possibile. Penso che noi donne e alcune di noi in particolare, nella nostra totale femminilità, e senza dover scimmiottare il mondo maschile, siamo già degli straordinari e silenziosi pilastri dotati di una forza insospettabile e coraggiosa, di una sensibilità generosa, geneticamente seminatrici di speranza, a cui è affidato il difficile e oneroso compito di curare le ferite, le inquietudini, gli infantilismi e la vacua tronfia arroganza di un mondo maschile, che ha giocato e gioca con la nostra femminilità, incapace di privarsene perché è la vera forza che sostiene il mondo e getta la sua luce sul futuro. 

Mio padre non mi aveva mai chiesto cosa volevo io dalla vita, forse perché era cresciuto in una società che non si poneva domande, ma cercava solo di costruire e ricostruire. Invece, il tempo in cui io ero nata, cresciuta e vissuta è stato ed è ancor oggi sempre più costellato di domande. A mio padre nessuno ha insegnato il dialogo. Io credo che solo il dialogo, e l’incontro tra le diversità può permetterci di trovarci e di essere veramente insieme per aprire reciprocamente orizzonti sconosciuti e affascinanti. 

Papà, perché non mi hai mai chiesto chi sono ? 

Perché non cerchi di scoprire almeno ora chi sono quelle tue braccia e quelle tue gambe, che lasci nella vita ? 

Quanti figli aspettano ancora queste semplici e amorevoli domande dai propri genitori ? 

Non è tempo più di aver paura e spesso non c’è più tempo.