Gli scarti reinventati

di Paolo Deganello

Guardare gli scarti come oggetti, segnati dall’uso, ma da valorizzare e comporre in un nuovo disegno, recuperare ed utilizzare in architettura componenti edilizi ricavati da demolizioni sono l’espressione di una nuova cultura della progettazione che intende mantenere e valorizzare la stratificazione dei segni. Il già vissuto non necessariamente va considerato come scarto, spesso, invece, può essere un valore, perchè dotato di qualità nella lavorazione (decorazione, disegno, modanature), che lo rendono di gran lunga superiore ai prodotti moderni, tecnici, anonimi realizzati in serie, senz’anima e calore. Il vecchio e il nuovo possono perfettamente coesistere in una sintesi originale. Non si tratta di recuperare e mettere insieme tutto più o meno casualmente, ma progettare la compresenza di una stratificazione dei segni.

Nel “Mestrado em Design de Interiores” di Maria Milano in cui sono docente convidado, una studentessa Francesca ha progettato un pavimento di un bagno assemblando con grande attenzione progettuale, scarti di mattonelle in ceramica. La studentessa ha imparato a guardare lo scarto come un oggetto, certamente condizionato dai segni dell’uso, ma comunque dotato di disegno e colore proprio che il progettista doveva riuscire a valorizzare e comporre per realizzare il disegno finale del pavimento. Un altro studente Peter ha costruito una spettacolare parete-archivio alta due piani utilizzando cassette in legno della frutta e verdura sotenute da una elementare struttura metallica.

In tutte le grandi città stanno sorgendo magazzini di elementi edilizi ricavati da demolizioni del già costruito che tendono al recupero del componente edilizio vecchio, usato ma in buono stato, spesso con qualità di disegno, ricchezza di modanature, decorazioni, materiali, e finiture di grande fascino, anche perché ricchi di buona manualitá, soprattutto se accostati ai prodotti moderni, tecnici, freddi, lisci, e sempre più anonimi , senza disegno perché prodotti del linguaggio della macchina. Che dei giovani progettisti dell’architettura degli interni entrino in questa logica del recupero estendendolo non solo al recupero del giá costruito ma anche all’utilizzazione di componenti edilizi recuperati dalla demolizione, seppur in piccolo dà la misura di questo cambiamento epocale. Siamo passati dalla mistica del nuovo e del tecnologico, dalla cancellazione con una mano di bianco di tutte le preesistenze nella convinzione dell’assoluta superiorità del moderno rispetto al nostro passato sinonimo di miseria e arretratezza, alla riscoperta del fascino dell’edilizia dei centri storici, all’interesse per la modanatura, per il vecchio, per l’usato, per il materico naturale fino all’allergia alla plastica. Il materiale vero, per lo meno nei prodotti costosi, ha ripreso il sopravvento sui laminati e i materiali finti, la decorazione è ritornata in auge, il colore è sempre più una scelta importante al punto che gli eredi di Henry Ford e della sua Ford T sempre nera son costretti a venderle le auto con la cartella colori e coi mille accessori personalizzanti.

Il problema non è recuperare e mettere insieme tutto, più o meno casualmente, ma progettare la compresenza di questa stratificazione dei segni. A quella del manufatto recuperato si somma “compositivamente” con sapienza, una sapienza da educare nelle scuole di progettazione, il recupero di altri componenti edilizi di altri contesti, portatori di diversi linguaggi. Questo testo figurativo ricco e ibrido è la risposta più sapiente e morale alla cultura del nuovo per il nuovo, a quel bianco igienista e astratto di tanta architettura portoghese che ha paura della volgarità della vita a cui cerca di anteporre il candore della cultura, ma nello stesso tempo è un rifiuto della stupidità autolesionista e distruttiva del privilegio dell’usa e getta, dello spreco, del considerare il già vissuto uno scarto.

Impariamo a considerare il già vissuto un valore, cominciarono nel 1967 a Kings Road a Londra, i giovani punk della periferia londinese a reinventare il loro vestiario svuotando i bauli delle nonne, di fronte alla crisi quella invenzione spontanea e ribelle contro il vestito grifato che i proletari della periferia londinese non potevano permettersi, oggi alla luce della crisi, ha il sapore di una geniale e colta anticipazione. Possiamo estendere al Design questa cultura del progetto del recupero e riuso ricontestualizzato con sapienza il già vissuto. Possiamo pensare un Recession design che sa far stare insieme lo scarto vecchio con il semilavorato nuovo, una raffinata modanatura intarsiata in legno con una lastra sottile di acciaio o una immagine pop. In fin dei conti che cosa è la poltrona di Proust di Mendini se non una poltrona comprata da qualche rigattiere, riverniciata d’oro nelle sue parti in legno massello finemente intarsiato, rivestita di un nuovo tessuto ma soprattutto ridecorata a pennello?