Il sogno impossibile di Robert Kennedy

Io sogno l’impossibile e mi chiedo perchè no

di Rossella Aprea

Cosa possiamo fare di fronte al disastro verso il quale stiamo lentamente scivolando? Forse c’è qualcosa che possiamo fare. C’è, innanzitutto, la consapevolezza e l’obbligo morale di esserci in prima persona e di provare a cercare una strada. Io l’ho trovata ascoltando le voci potentissime di coloro che ci hanno preceduto. E’ vero, qualcosa sembra morto in noi per sempre e invece, queste voci riescono ancora a smuovere, a impressionare, a turbare. Allora c’è speranza, c’è ancora speranza. Robert Kennedy aveva già indicato i pericoli ai quali ci saremmo dovuti sottrarre e che oggi ci affliggono: la futilità, l’opportunismo, la timidezza e l’agiatezza.

Sono settimane, ma in realtà il percorso è iniziato confusamente molti mesi fa, o addirittura da sempre, che cerco di capire quello che sta accadendo a me e alle persone che, come me, vivono questi tempi così avvilenti. Non voglio arrendermi alla rassegnazione, all’ineluttabilità, al disfattismo e al pessimismo paralizzante dei più. Non ho mai cercato una posizione facile, né di comodo e non riesco a farlo neanche ora. Sento tutta la gravità del momento, potrei sottrarmi alla responsabilità, delegando le decisioni e le scelte sul futuro ad altri, convincendomi, come fa la maggior parte delle persone che tanto da sola non posso cambiare nulla.

Eppure sento, prepotente, una voce dentro di me che mi inquieta, che non si placa, che avverte tutto il peso della responsabilità che deriva dalla consapevolezza e dall’obbligo morale di esserci in prima persona in questo tempo e per quello che nel mio piccolo potrò fare. E’ la stessa voce, che qualche anno fa mi faceva svegliare nel cuore della notte in preda all’ansia per la sorte di mio padre, malato di tumore e che mi tormentava e mi obbligava a chiedermi “Cosa posso fare? Cosa posso fare? Forse c’è qualcosa che posso fare”. Dovevo scoprirlo, non avevo pace, così provavo ad informarmi, dovevo capire, perché se ci fosse stata anche una sola possibilità per me di aiutarlo, io dovevo offrirgliela. Chi ha avuto un familiare in questa condizione può capirmi.

Ecco quello che provo ora per il mio Paese, per la gente che vive intorno a me, per questo breve istante in cui sono in questo mondo. Io provo esattamente la stessa cosa. “Forse c’è qualcosa che posso fare, che possiamo fare”. E sto cercando di capire, sto cercando una strada da seguire, sto cercando una traccia.

Nella confusione più generale, in mezzo all’infuriare delle polemiche, delle liti, delle paure per il futuro, io cerco il silenzio, cerco le voci potentissime di coloro che hanno tracciato un solco profondo nel cammino dell’umanità verso il proprio futuro e che mi hanno preceduto, vivendo in tempi altrettanto difficili e angoscianti. Ed è incredibile perché dal silenzio dell’oblio e del passare del tempo a volte queste voci riemergono, meravigliosamente vive, attualissime, immortali. Ascoltatele anche voi, ve ne prego! Proverò a portarle più vicine che posso al vostro orecchio in altri articoli, purché gli lasciate il tempo di risuonare e sono sicura che avranno su di voi lo stesso effetto che hanno avuto su di me. C’è qualcosa che sembra morto in noi per sempre e che, invece, queste voci riescono ancora a smuovere, a impressionare, a turbare.

Vuol dire che c’è speranza, c’è ancora speranza. Una speranza, non una vaga illusione, o una retorica affermazione, ma una speranza autentica, consapevole della realtà attuale, dei tempi in cui viviamo, del disastro morale che ci circonda. Una speranza che proprio per questo è coraggiosa. Quelle voci risuonano dentro la mia testa e dentro la mia anima, si intrecciano continuamente tra loro, e affondano le radici nello stesso terreno fertile, anche se pronunciate in tempi diversi, in luoghi diversi e da persone diverse. Prima queste voci apparivano confuse e deboli, soffocate dalle urla dei violenti e degli arroganti, adesso a me risultano nitide, sovrastando tutte le altre, e facendo apparire quelle degli altri per quello che sono: suoni mediocri, volgari, inconsistenti, vacui, se non addirittura pericolosi. E queste voci, invece, sono diventate semplicemente gigantesche, invincibili. Molti di coloro che usavano quelle parole e credevano in quei valori, sono stati ridotti al silenzio, uccisi, ma le loro voci non hanno mai smesso di parlarci. Così ci hanno lasciato una traccia indelebile da seguire. Spetta a noi vederla e poi decidere di seguirla. La speranza non è morta con la scomparsa di questi uomini coraggiosi, dotati di straordinaria e profonda umanità. Non è morta, semmai è stata abbandonata perché nessuno dopo di loro ha raccolto il testimone che hanno lasciato ed ha avuto il coraggio di seguirne le orme, di continuarne il cammino.

La speranza, dunque, non si è dissolta, siamo noi che abbiamo rinunciato a farla vivere, aspettando passivamente che qualcuno lo facesse per noi, rassegnandoci così a rimanere nella nostra quotidianità, fatta di miseria oggettiva e morale. Ci guardiamo bene dal pensare che, invece, proprio noi, ciascuno di noi potrebbe e dovrebbe essere quel qualcuno che per sé e per gli altri ne raccoglie il testimone. “Perché io?” dicono i più oggi, e invece dovremmo semplicemente rovesciare questa domanda “Perché NON io?”. E tutto cambierebbe. “Molti guardano la realtà e si domandano perché. Io sogno l’impossibile e mi domando perché no”. Questa speranza ispirava la politica di Robert Kennedy alla fine degli anni Sessanta. La speranza e il sogno. Ed è ancora il sogno che ritorna nelle parole “I have a dream” di Martin Luther King. Non possiamo vivere senza un sogno. Ci abbiamo provato, ci stiamo provando, ma tutto intorno a noi è diventato squallido, vacuo e inutile.
Ci sono molti pericoli dai quali siamo afflitti oggi e che dobbiamo affrontare e superare per ritrovare noi stessi: la futilità, l’opportunismo, la timidezza e l’agiatezza. Questi con straordinaria lungimiranza erano stati già tutti colti e indicati nello straordinario discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università di Città del Capo in Sud Africa nel 1966.

Il primo pericolo è la futilità; il credere che non ci sia niente che un uomo o una donna possa fare contro l’enorme quantità di mali del mondo, contro la miseria, contro l’ignoranza, o contro l’ingiustizia o la violenza. Tuttavia molti dei più grandi movimenti su scala mondiale, sia di pensiero che d’azione, sono scaturiti dal lavoro di una singola persona. […] “Datemi solo un punto d’appoggio”, disse Archimede, “e vi solleverò il mondo”.

Questi uomini mossero il mondo, e così possiamo fare tutti. Pochi avranno la grandezza necessaria a piegare la storia ma ciascuno di noi può operare per modificare una minuscola parte del corso degli eventi e tutte queste azioni formeranno la storia di questa generazione. […]

La storia dell’umanità è il prodotto di innumerevoli atti di coraggio e di fede come questi. Ogni qual volta un uomo si batte per un ideale o opera per migliorare la condizione degli altri o lotta contro l’ingiustizia, invia un minuscolo impulso di speranza e tutti questi impulsi provenienti da milioni di centri di energia, intersecandosi gli uni agli altri possono dar vita ad una corrente capace di travolgere i più possenti muri dell’oppressione, dell’ostilità. […]

Il secondo pericolo è quello dell’opportunismo, di coloro che dicono che le speranze e le credenze devono piegarsi di fronte alle necessità immediate. Naturalmente, se dobbiamo agire efficacemente dobbiamo trattare con il mondo così com’è. Dobbiamo realizzare le cose. Ma se c’è una cosa su cui il Presidente Kennedy aveva preso una posizione, una cosa che toccò i sentimenti delle persone più giovani in tutto il mondo, era la convinzione che l’idealismo, l’alta aspirazione e le profonde convinzioni non sono incompatibili con i programmi più pratici ed efficienti, che non c’è separazione fra i desideri più profondi del cuore e della mente e la razionale applicazione dello sforzo umano ai problemi umani. Non è realistico o è da ostinati risolvere i problemi e prendere azioni senza la guida di un scopo e di valori morali finali, sebbene noi tutti sappiamo che qualcuno sostiene che è proprio così. Secondo me, e’ sconsideratamente folle. Perché ignora le realtà della speranza umana e della passione e della fede; forze che sono in ultima istanza ben più forti di tutti i calcoli dei nostri economisti o dei nostri generali. Naturalmente per aderire agli standard, all’idealismo, ad una visione di fronte a pericoli immediati c’è bisogno di grande coraggio e fiducia in se stessi. Ma noi sappiamo anche che solo quelli che osano sbagliare enormemente possono poi raggiungere risultati straordinari. […]

Un terzo pericolo e’ la timidezza. Pochi sono pronti a rischiare con coraggio la disapprovazione degli amici, la censura dei colleghi, la vendetta della società. Il coraggio morale è merce più rara del coraggio in battaglia o dell’intelligenza. Tuttavia è la qualità essenziale, vitale per coloro che cercano di cambiare il mondo che cede dolorosamente al cambiamento. […]

Per i fortunati attorno a noi, il quarto pericolo è l’agiatezza; la tentazione di seguire il facile e famigliare cammino dell’ambizione personale e del successo economico così ampiamente diffuso fra quelli che hanno il privilegio dell’istruzione. Ma questa non è la strada che la storia ha segnato per noi. Una maledizione cinese dice: “Che possa vivere in tempi interessanti”. Che ci piaccia o no, viviamo in tempi interessanti. Sono tempi di pericoli e di incertezze ma sono anche tempi che danno spazio, come mai prima d’ora, alle energie creative dell’uomo. E ciascuno sarà giudicato e giudicherà se stesso per il contributo che avrà saputo dare alla costruzione di una nuova società mondiale e per la misura in cui avrà saputo ispirare il suo operato ai suoi ideali e ai suoi obiettivi. […]

Sia John Kennedy che suo fratello Robert furono uccisi, ma possiamo dire che con loro è morta la nostra speranza? O semplicemente che loro ci hanno indicato la strada da seguire, ma nessuno ha scelto di proseguire sul loro cammino, di riprendere lì dove qualcuno li aveva costretti a lasciare, pensando che bastasse ucciderli per soffocare i loro pensieri? Ma quei semi nella terra sono caduti e aspettano, come dice il poeta tunisino Moncef Marzouki, solo che arrivi la pioggia. Quei semi ci sono, quei discorsi sono rimasti, quel solco è stato tracciato. La fine dell’età dell’innocenza negli anni Sessanta ha trascinato il mondo per sentieri di violenza e di immoralità crescenti, i cui effetti devastanti scontiamo oggi, senza più riferimenti, confusi, isolati, imbarbariti, senza speranza. Ma quel solco è stato tracciato, il seme è stato gettato, ora sappiamo quello che dobbiamo fare, cioè dove dobbiamo far cadere l’acqua perché quei semi possano germogliare. Ci manca il coraggio, l’energia, la convinzione, la voglia di rischiare. Ma se cerchiamo la salvezza, una speranza, l’integrità e la dignità per noi, per gli altri e per il nostro futuro è al sogno spezzato con la violenza che dobbiamo tornare. E’ quel sogno incompiuto che dobbiamo e possiamo far rivivere. Lì giace la nostra speranza e in quel punto che l’abbiamo abbandonata. A questi uomini, il cui coraggio e le cui convinzioni ci ricordano ancora che il sogno esiste, che ci attende, che possiamo riprendercelo per noi stessi, per chi verrà dopo di noi, siamo debitori della “speranza” e il nostro debito morale nei loro confronti potrà estinguersi, solo forse nel compiersi.

“Sono convinto che in questa generazione coloro che avranno il coraggio di affrontare il conflitto morale troveranno compagni di strada in ogni angolo del mondo” (Robert Kennedy)