Italia infelice

di Lapo Berti

Da troppo tempo ormai l’Italia finisce agli ultimi posti nelle classifiche mondiali che riguardano la qualità della vita e la solidità della sua struttura economica e sociale. Non è solo l’effetto della crisi. E’ l’effetto di un declino che dura da decenni e che ha come causa principale l’incapacità politica di cambiare un modello economico obsoleto.

Quali sono i paesi più felici, quelli in cui la maggioranza dei cittadini dichiara di trovarsi in una condizione di benessere o, meglio di “prosperità” (thriving), che molti considerano come un sinonimo? Sono solo 17 sui 148 in cui Gallup ha condotto il consueto sondaggio sul benessere globale (Global Wellbeing) e al primo posto, come ormai succede ininterrottamente dal 2009, c’è la Danimarca, dove un invidiabile, e irraggiungibile, 74% della popolazione ritiene di vivere sufficientemente bene. Seguono il Canada (66%), l’Olanda (66%), Israele (65%), la Svezia (65%), l’Australia (64%). L’ultimo dei paesi fortunati è l’Oman, con il 51%, che va ad affiancarsi a un altro paese arabo, gli Emirati Uniti, che lo precede con il 58%.

Il club dei paesi che vivono nella prosperità è, dunque, piuttosto esclusivo. Ne fanno parte i soliti paesi dell’America del Nord insieme con quelli del Nord Europa e vi hanno accesso alcuni paesi del Sud America e della penisola arabica.

Rispetto al 2010, i paesi che hanno sperimentato una maggiore crescita del loro senso di benessere sono il Ghana, la Corea del Sud, l’Uzbekistan, il Vietnam, l’Albania, la Nigeria, l’Uruguay e l’Argentina. Va detto, per mantenere il senso delle proporzioni, che fra questi paesi solo l’Argentina e l’Uruguay presentano un 50% o più di cittadini che dichiarano di vivere bene. Gli altri, anche se migliorano alla svelta, rimangono ancora al di sotto.

Non sorprende scoprire che l’Italia è ben lontana dal gotha della felicità e si piazza nel quarto più basso della classifica, con un misero 23%, che la dice lunga sullo stato di salute della società italiana e della sua economia, incapace di fornire una sensazione di benessere a più di tre quarti della popolazione, situandosi tra paesi che sono ben lontani dal livello di maturità economica del nostro paese, come la Nigeria, la Bolivia, l’Estonia e la Turchia, che stanno appena sopra o come la Polonia, la Lituania e il Mozambico, che stanno appena sotto. Ma la cosa più preoccupante è che l’Italia condivide condivide un altro primato negativo ovvero il fatto di essere tra i paesi che fra il 2010 e il 2011 hanno visto peggiorare considerevolmente la loro posizione. Anche qui la compagnia è tutt’altro che confortevole, per non dire inquietante: abbiamo perso 14 punti percentuali, un po’ meno del Bahrein e del Venezuela, ma più del Pakistan e del Honduras. Con tanti saluti alla centralità europea del nostro povero paese. C’è da chiedersi che cosa abbiamo fatto per precipitare in questa condizione deprimente, dopo che per anni ci siamo gonfiati il petto come una delle prime cinque o sei economie al mondo. L’unica risposta possibile a questo interrogativo angoscioso è che l’Italia, negli ultimi anni, ha vissuto un processo di degrado generalizzato dell’economia, della politica, della vita sociale e perfino culturale che ha indotto nei cittadini un drastico ridimensionamento delle aspettative. E’ venuta meno la fiducia, perfino la speranza, nella possibilità di farcela a migliorare le proprie condizioni di vita. Siamo in un tunnel di cui ancora non s’intravede l’uscita, ammesso che esista.

Una conferma che questo è attualmente il clima sociale in Italia ci viene dal recentissimo dossier Eurisko sui “Climi sociali e di consumo” che traccia un quadro impietoso della situazione in cui versa il nostro paese e getta inevitabilmente un’ombra negativa sui governi che si sono succeduti negli ultimi anni, fatta eccezione, almeno in parte, per il governo Monti. Gli indicatori presi in considerazione dal sondaggio presentano tutti valori decisamente negativi e mettono a fuoco la percezione diffusa di un progressivo peggioramento della situazione. Che si parli di sicurezza del posto di lavoro, della situazione economica e finanziaria attuale o delle previsioni per il prossimo anno, gli orientamenti sono prevalentemente improntati al pessimismo. Di conseguenza, la gente spende di meno, le aziende formulano strategie a breve termine puntando al contenimento dei costi tramite il taglio dei posti di lavoro e la riduzione degli investimenti. Potrebbero essere semplicemente i segni di una crisi economica che perdura e fiacca le aspettative, ma c’è il sospetto che siano i sintomi di un male più grave e profondo che attanaglia il paese e gli toglie la fiducia, la voglia di fare e lo spinge verso la rinuncia e l’attendismo. Se è così, non basterà una politica economica o una qualche riformetta. Occorre una svolta netta che riapra i giochi, rimotivi le persone e le impegni in un lavoro di lunga lena per ricostruire il paese economicamente, socialmente e politicamente.