La resistenza: un esercizio di cittadinanza attiva

Essere uomini liberi o mediocri comparse?

di Rossella Aprea –

L’Italia si batte perché è viva e giovane e sa che l’attende – oltre ogni tristezza e difficoltà presente – un luminoso avvenire“. Era il 29 aprile del 1945 e Luigi Salvatorelli così parlava del Paese all’indomani della liberazione dall’occupazione nazifascita. E continuava “…la sua battaglia non è pura reazione istintiva all’invasione e all’oppressione; è sforzo cosciente di un popolo che ha preso in mano il suo destino abbandonato e tradito da coloro che ne avevano in debito la custodia.”

A parte l’evidente richiamo storico alla situazione del momento e una certa compiaciuta vena retorica, giustificata dall’eccezionalità della situazione, questa frase mi ha fatto riflettere per la sua straordinaria attualità. Andrebbe pronunciata oggi, ripetuta con forza, quasi come un incitamento a reagire, andrebbe stampata nelle nostre coscienze immiserite e assopite.

L’Italia si batte, perché è viva, innanzitutto! Forse quella di oggi non più tanto giovane, ma – diamine! – sfido chiunque a non desiderare che sia viva e che continui a vivere. Non possiamo desiderare che non lo sia, perché nelle pieghe stesse della vita si annida la speranza e il senso del nostro procedere, nonostante tutto e “oltre ogni tristezza e difficoltà presente”. Non so se l’Italia di allora sapesse che c’era ad attenderla un luminoso avvenire, ma che lo sperasse con tutta se stessa, non c’è dubbio. Oggi, lontani da quella retorica postbellica sorretta da un sentimento di eccitamento e di entusiasmo per l’incognita che il nuovo apriva dinanzi agli occhi dei nostri padri e dei nostri nonni, ci troviamo di fronte a una nuova, grave crisi, non solo economica, ma ad una vera e propria emergenza democratica e sociale. Oggi, sulle disillusioni, sulle ceneri di quell’eccitamento, di quell’entusiamo, troviamo difficile, quasi impossibile credere che ci possa attendere anche qualcosa di vagamente luminoso per l’avvenire.

C’è bisogno, allora, di una nuova resistenza, che poggi le sue fondamenta su un senso civico ed una partecipazione, che agli Italiani sono sempre  mancati, ma con i quali il Paese ha dovuto fare i conti nei momenti più critici della sua storia, ritrovando in essi  quelle risorse che le hanno, più volte, consentito di rinascere dalle proprie ceneri e di alimentare i momenti più gloriosi e fulgidi della propria storia nazionale: il Risorgimento e la Resistenza. Pur trattandosi, in entrambi i casi, di esperienze che hanno coinvolto solo minoranze di cittadini, la passione, la forza civile che sorreggevano quegli individui hanno permesso a quei pochi di sopperire alla mancanza di coinvolgimento di tutti.

La Resistenza certo non è stato un evento di massa, solo pochi hanno avuto il coraggio di gettare il cuore e la vita nella mischia. Lo storico del fascismo Renzo De Felice asserisce, infatti, che anche dopo l’8 settembre la maggioranza degli italiani aveva conservato un atteggiamento di «sostanziale estraneità, se non di rifiuto», sia verso la Rsi sia verso la Resistenza per una ragione profondamente umana: «primum vivere fu l’imperativo interiore della gente». La preoccupazione principale, infatti, era quella di salvarsi, di non compromettersi con le parti in lotta, di sperare in una fine rapida della guerra, aspettando. L’ atteggiamento attendista in vista di tempi migliori non deve meravigliarci, anche oggi si ripropone, pur se in circostanze diverse. La coscienza mediocre fa sì che l’italiano medio preferisca stare alla finestra, con un opportunismo al confine tra la paura e l’interesse privatistico.

Per don Primo Mazzolari, noto prete antifascista, la Resistenza doveva essere solo un inizio. Un primo passo verso una rivolta morale dal profondo valore etico da realizzare nel tempo attraverso la formazione delle coscienze. La resistenza deve essere, dunque, un atteggiamento permanente che chiama in causa ogni cittadino, ma la politica di parte non ha consentito alla Resistenza di svilupparsi in Italia. Così invece di diventare patrimonio di un Paese capace di permeare la massa degli indifferenti e dei diffidenti, la Resistenza è stata usata dai partiti per rivendicarne i meriti. Nella famosa Lettera a un partigiano (1945) Mazzolari ricordava:

«La brigata portava un nome e un’insegna di partito ma niente ti prendeva di quel “particolare”. Tu eri “partigiano” della libertà di tutti, lottavi e soffrivi per tutti gli italiani».

Mazzolari metteva in evidenza, anche, come il concetto di patria si facesse largo e venisse “adottato” dai partigiani:

«Fra tante tristezze e disgrazie, l’adozione della patria da parte del popolo è l’avvenimento consolante della nostra storia. Proprio coloro che non avevano nessun motivo di attaccamento e di riconoscenza, slargarono verso essa, quasi all’improvviso, il cuore e le braccia per proteggerla e salvarla».

E’ il senso di appartenenza ad una comunità il primo grande valore della resistenza. L’insegnamento è chiaro: sa resistere chi sente profondamente la responsabilità di poter contribuire al bene di un popolo. Si resiste al male, all’ingiustizia, all’oppressione in nome di una vita sociale che è calpestata o in pericolo. In nome del bene comune. Scriveva Mazzolari nel 1955 commemorando la Resistenza su L’Educatore italiano che «l’amore della libertà, la sete della giustizia, quando uno ha il cuore puro, ci fa trovare “resistenti” nei confronti di ogni forma d’iniquità o di pressione, aperta o segreta, calcolata o istintiva, pubblica o privata, militare o economica, laica o clericale, di partito o di razza».

La resistenza è, dunque, un esercizio di cittadinanza attiva.

Proprio per il suo carattere etico, la Resistenza si fonda sulla gratuità, è per tutti e  richiese in quegli anni il sacrificio di numerose vite umane. Nella Lettera a un partigiano:

«Se di quel particolarismo qualche cosa, oltre lo slancio e il disinteresse, ti rallegrava, era il fatto che uomini di ogni classe, che fino ad allora avevano professato dottrine che sembravano non tener conto della patria, se la prendevano talmente a cuore e con tale devozione che ogni istante si disponevano a morire per essa».

La Resistenza aveva forgiato uomini alla gratuità, al sacrificio di sè.

E’ necessario parlare di resistenza anche oggi, tanto più in quest’epoca di disorientamento generale. La resistenza potrebbe essere un ottimo antidoto a quella che Mazzolari chiamava «la politica del peggio». Occorre resistere laddove manca l’uomo ed è da ricostruire il senso civico. Scriveva profeticamente nel 1945:

«Il fascismo non ha mai trovato redditizio l’uomo: avvertiva d’istinto che non ci poteva contare, e coltivò il gregario spersonalizzato o il violento da buttare sulla piazza nelle giornate di manovra. Guardandomi intorno, oso dire che lo stesso tipo è ricercatissimo tuttora, e che la manovrabilità è la  dote preferita. Si ha paura in politica della gente che pensa con la propria testa, e molti si adoprano affinché il voto non sia una libera e consapevole voce della ragione, ma la vuota espressione di una effimera suggestione. (…) La disgrazia della lotta politica in Italia è legata alla dimenticanza dell’uomo, per cui abbiamo cittadini che sono quel che volete, vale a dire con denominazioni politiche svariatissime, ma con nessuna sostanza umana. Prima di essere ammessi a un partito ci vorrebbe la promozione a uomo. (…) Per chi ha bisogno unicamente d’arrivare al potere e di tenerlo a qualsiasi costo è più redditizia l’apparizione delle comparse che quella dell’uomo. Le comparse si nutrono del peggio, mentre l’uomo osa chiedere un po’ di pane, un po’ di giustizia, un po’ di libertà per tutti».

La scelta è dunque tra l’essere comparse asservite o essere uomini liberi.  La denuncia di Mazzolari appare ancora più attuale in un’epoca in cui le persone sono degradate a oggetto. I mezzi di comunicazione deformando la realtà hanno esaltato il modello di un’umanità meschina e ne hanno alimentato il torpore delle coscienze. Hanno generato atteggiamenti di obbedienza servile, la difesa di interessi particolari, se non addirittura personali, la rassegnazione all’ingiustizia e allo squallore. Formare all’umanità, quindi, diventa sempre più urgente.

La nuova resistenza e il nuovo risorgimento a cui dobbiamo dar vita oggi, però, possono contare su mezzi di comunicazione trasversali e democratici – quali Internet, cellulari, Ipod – inesistenti nei secoli passati, che potrebbero consentire un coinvolgimento più ampio e una partecipazione  più consapevole. Si tratta di far circolare informazioni, che consentano lo sviluppo di una cultura nuova, di una visione alternativa, di un’inversione di tendenza. I nostri padri e i nostri nonni ci riuscirono ad un costo altissimo, come abbiamo visto, che oggi non ci è richiesto, il proprio sacrificio. Leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza è scioccante. Uomini e donne, per lo più giovani, giovanissimi, che andavano incontro alla propria esecuzione sereni, consapevoli, animati e sorretti dalla forza di un grande ideale. L’italico individualismo che oggi è diventato ancora più cinico, sordido e spinto dopo decenni di demolizione di qualsiasi residuo di senso civico rimasto nella società, nella famiglia e nella scuola, forse guarderà in maniera incredula a quegli scritti, che potrebbero apparire animati solo da fanatismo e follia. Invece, vi era in essi una lucida consapevolezza dell’alto valore civico del proprio sacrificio e del proprio impegno.

Resistere era ed è l’unico modo per custodire anche la democrazia, ma non una democrazia vuota, che mette in scena la propria rappresentazione attraverso un populismo che si appella al consenso senza alcun riferimento al bene comune partecipato, condizione indispensabile per una vera democrazia. Avvertiva nel 1946 don Mazzolari:

«Democrazia è riconoscere che al mondo ci siamo in tanti e con diritti eguali e che c’è posto per tutti se glielo lasciamo: e pane, e aria, e terra e acqua per tutti, se non glielo rubiamo e distruggiamo. Democrazia è far vivere… Il modo di uccidere non importa. Se t’ammazzo col mitra sono forse antidemocratico? e se t’ammazzo col portafoglio, secondo la regola della buona creanza borghese, sono forse democratico? Democrazia vuol dire non soltanto le strade sicure, le banche sicure, ma anche il pane, anche la giustizia, anche il lavoro sicuro. (…) Bisogna resistere all’istinto gregario che è una creazione allucinante di tutti i dominatori di marca reazionaria o progressiva. (…) Ciò che fa paura ai gerarchi di tutti i regimi è l’uomo, la cui vera soddisfazione è di fare, nel bene, ciò che vuole e nell’ora da lui scelta, pagando con la solitudine e la povertà la testimonianza alla sua interiore libertà. La democrazia ha bisogno di tali uomini, che si donano o si rifiutano, ma che non si vendono o non si conformano per non essere scomodati. Chi ci salverà da questa democrazia, che come la dittatura per far più presto a riportarci verso un totalitarismo universale non può sopportare che uomini mediocri?»

La nostra Costituzione, la nostra Repubblica, la nostra libertà è stata alimentata, si è nutrita ed è nata dalla Resistenza, dal sacrificio di uomini tutt’altro che mediocri, di uomini dotati di un alto valore civico, di quella dignità e di quell’orgoglio, espresso individualmente e collettivamente, che ci hanno permesso di superare oltre settant’anni fa quell’emergenza bellica e di aprire per il nostro Paese una fase nuova di pace e prosperità, che avrebbe dovuto essere sorretta negli anni dallo stesso anelito di libertà e passione civile. Ciò non è stato, e stiamo progressivamente assistendo alla perdita di tutte le conquiste raggiunte – economiche, sociali, civili – nella più totale apatia, conquiste che altri prima di noi, impegnandosi, ci avevano consegnato. “C’è qualcuno seduto all’ombra oggi perché qualcun altro ha piantato un albero tanto tempo fa” (Warren Buffet). Oggi non ci sono più alberi, non c’è più ombra sotto la quale stare seduti, perché non ci siamo preoccupati di curare quegli alberi che altri prima di noi avevano piantato. E allora non abbiamo alternative. Inutile sarebbe rimanere seduti sotto il sole ad aspettare. Occorre piantare nuovi alberi se abbiamo lasciato morire quelli che  c’erano, nuovi alberi sotto la cui ombra in futuro potremo ripararci.

La crisi ci obbliga a prendere coscienza del fatto che democrazia, legalità, sicurezza, meritocrazia, innovazione, sviluppo economico e lavoro non sono concetti, princìpi, valori garantiti per sempre, ma che vanno difesi giorno per giorno e che sono strettamente interdipendenti. Il deficit di uno di essi trascina con sé in un effetto domino tutti gli altri, impoverendo  progressivamente la società e minacciando la qualità delle nostre vite, la nostra stessa libertà. Grazie alla crisi abbiamo finalmente l’opportunità di renderci conto, essendo stati indifferenti al problema sinora, che una società individualista è una società fondamentalmente malata, che non potrà garantire un futuro all’ombra a nessuno. Su questa realtà bisogna cominciare a riflettere seriamente, rendendosi conto, che solo una società fondata sul senso civico, cioè costituita da cittadini liberi e consapevoli, che vivono in un sistema di leggi certe e chiare, con diritti individuali garantiti e con poteri di governo limitati e soggetti al controllo dei cittadini, ci permetterà di costruire un futuro equo per tutti.

Questa considerazione deve ispirare le nostre scelte e i nostri comportamenti quotidiani, di questo bisogna cominciare a discutere nelle scuole e nei dibattiti pubblici, intorno a questo valore bisogna cominciare a coagulare energie, uomini, pezzi stessi della società e delle istituzioni. La nostra quotidianità è continuamente esposta agli effetti della presenza/assenza di senso civico, al modo in cui noi stessi interagiamo con gli altri, condividiamo gli spazi e ci uniformiamo alle regole comuni. Molti, come la nostra storia ci ha già mostrato, saranno disinteressati o preferiranno non esporsi a discutere su queste questioni e a partecipare ai problemi sociali e politici, allora mi sovviene quella parte del discorso che Piero Calamandrei, lucido e lungimirante giurista, pronunciò in maniera semplice, chiara ed incisiva ad una platea di studenti milanesi nel 1955:

“La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.”

Che siamo in pericolo, questo, forse, comincia ad esserci chiaro e su questo bastimento ci siamo tutti. Dovremmo decidere se vogliamo essere tra quelli che stanno alla finestra, pensando che il problema non li riguardi o peggio attendendo opportunisticamente di capire cosa gli convenga fare, o decidere di darsi da fare per impedire che il bastimento affondi, perché solo facendo l’interesse di tutti con spirito di fiducia, disponibilità e gratuità, garantiremo anche il nostro. Insomma si tratta sostanzialmente di scegliere se vogliamo essere mediocri comparse asservite o veri uomini liberi.