Tredici vasche d’acqua per una barretta di cioccolato

di Salvatore Aprea

Acqua per dissetarsi, per lavarsi, per alimentare le colture. Mille usi dell’acqua, bene essenziale, ma che scarseggia, soprattutto, a causa dell’utilizzo intensivo in agricoltura e nell’industria. L’acqua sarà il petrolio del XXI secolo. Il nostro Paese spreca fino al 47% delle sue risorse idriche a causa della noncuranza con cui sono utilizzate e, soprattutto, di una rete idrica nazionale che ormai somiglia a un colabrodo. In futuro per dissetarci potremo usare mare, nebbia, nuvole e batteri. Come? Con l’aiuto della tecnologia.

L’acqua sarà il petrolio del XXI secolo

Carestie, epidemie, migrazioni bibliche: oggi nel mondo 1,6 miliardi di persone vivono direttamente le conseguenze della siccità. Una situazione, peraltro, destinata a peggiorare. Secondo le previsioni di un rapporto dell’Unep – il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – presentato ad agosto in occasione della “Settimana mondiale dell’acqua” organizzata dalla “Stockholm International Water Institute” (SIWI), quando nel 2050 la popolazione globale supererà i nove miliardi di individui sarà necessario il doppio dell’acqua utilizzata oggi per garantire la sicurezza alimentare. All’evento di Stoccolma hanno partecipato esperti provenienti da 130 Paesi e rappresentanti di oltre 200 organizzazioni internazionali che si sono confrontati sui problemi del “petrolio del XXI secolo” per fornire soluzioni alle sfide globali per l’acqua, l’ambiente e lo sviluppo, elaborando proposte operative per combattere gli sprechi idrici nelle aree urbane dei Paesi sviluppati.

Per gli esperti, infatti, il primo problema sul quale convogliare gli sforzi è l’adeguata gestione dell’acqua. Un aspetto cruciale, in un pianeta in cui oltre la metà della popolazione vive in aree urbane ed in cui l’agricoltura è responsabile del 70% dell’utilizzo mondiale di oro blu, ma avverte l’Unep, se gli attuali regimi alimentari e pratiche agricole non cambieranno questa percentuale potrebbe salire al 90%. Un fenomeno che di questo passo, entro la metà del secolo, potrebbe portare due miliardi di persone a non avere accesso all’acqua potabile. Al mondo sono già 830 milioni le persone che, nelle zone urbane, mancano di approvvigionamento idrico e il ministro svedese per gli Aiuti internazionali Gunilla Carlsson ha ricordato come la carenza e la cattiva gestione dell’acqua siano nel mondo la seconda causa di mortalità infantile.

Per dissetarci in futuro useremo mare, nebbia, nuvole e batteri?

Lo sfruttamento dell’acqua per le esigenze agricole e industriali è già al limite in parecchi Paesi, per giunta l’incremento demografico e i mutamenti climatici in atto impongono di correre ai ripari quanto prima. La scarsità di acqua dolce rappresenta per l’umanità una sfida immensa, ma tecnologia e antica saggezza potrebbero contribuire a contrastarla. Alcune delle invenzioni in materia messe a punto negli ultimi anni sono esposte in una mostra dal titolo “Water Wars”, ospitata fino alla prossima estate dal London Science Museum. Si tratta di cinque metodi, già testati sul campo almeno in parte, dei quali sono spiegati i dettagli di funzionamento, le potenzialità e anche i dubbi non ancora fugati.

Una soluzione alla quale ricorrono già da tempo molti Paesi per ridurre il loro deficit idrico è la desalinazione dell’acqua di mare. I costi energetici rappresentano un problema serio, ma la carenza d’acqua è spesso accompagnata da un forte irraggiamento solare, sicché è possibile alimentare un impianto di desalinazione ad esempio con una centrale solare a concentrazione. Il primo impianto del genere è in fase di ultimazione a Cipro e le aspettative per le sue prestazioni sono notevoli, tenuto conto anche della importante attività che è stata necessaria per creare speciali condotte di scarico al fine di evitare che la salamoia prodotta dal processo di desalinazione possa danneggiare l’ecosistema marino dell’isola. Su questa tecnica grava però lo scetticismo degli ambientalisti. Il WWF ad esempio ritiene che esistano metodi meno invasivi, più economici e molto più semplici per fronteggiare la crisi idrica.

Il sistema più promettente è forse la raccolta della nebbia, anche grazie ai costi molto limitati poiché tra l’altro non necessita di energia. L’ obiettivo è quello di estendere su grande scala il sistema già adoperato da alcune comunità locali nei Paesi in via di sviluppo, rendendolo più efficiente. Ad esempio in alcuni quartieri periferici di Lima privi di rete idrica, la popolazione distende delle reti su un versante della montagna particolarmente esposto alle foschie. Con il trascorrere delle ore delle microgoccioline d’acqua impregnano queste reti, scolando poi in contenitori ad hoc. In proposito la mostra londinese espone la storia dell’impianto in costruzione in Cile che diventerà operativo nel 2012, ossia una torre per la cattura della nebbia. Se i risultati fossero positivi, successivamente si potrebbe puntare ancora più in alto, raccogliendo direttamente dalle nuvole a bassa quota il vapore acqueo.

A questo punto qualche lettore curioso giustamente si chiederà: “E nelle aree prive di nebbia che cosa si può fare?” Allo studio ci sono diverse soluzioni interessanti che, purtroppo, hanno un punto in comune: sono ancora tutte piuttosto care. Anche per luoghi inospitali come il Sahara, ad esempio, si stanno valutando soluzioni come le serre ad evaporazione marina, basate per l’appunto sulla cattura dell’acqua di mare evaporata, grazie a un’idea dell’ingegnere Charlie Patton che ha effettuato esperimenti per 20 anni. All’interno di queste serre speciali è possibile coltivare ortaggi anche nel Sahara attraverso opportune attrezzature che raccolgono l’acqua salata evaporata, trasformandola in acqua dolce per condensazione. I costi di questa tecnologia per un’applicazione su larga scala sono ancora da verificare, ma per gli esperti della Ong britannica Oxfam rappresentano il maggiore ostacolo alla sua diffusione, insieme alle eventuali difficoltà politiche in aree del globo attraversate da conflitti perenni.

Una soluzione più “low profile” è costituita dalle scatole per piante, basata sulla pratica da sempre utilizzata dai contadini in Nepal e Sri Lanka, che interrano dei vasi di terracotta per lasciar filtrare l’acqua poco per volta. Tutto si impernia sul principio che le piante capaci di radicarsi più in profondità nel terreno sopravvivono meglio all’aridità e quindi, al fine di consentire la sopravvivenza delle piante anche in lunghi periodi senza precipitazioni e costringere allo stesso tempo le radici a farsi strada verso il basso, insieme alle piante si interrano delle particolari scatole “tecnologiche” che intrappolano l’acqua, rilasciandola lentamente. Sul funzionamento della scatola gli addetti ai lavori non hanno dubbi, ma anche in questo caso il problema sono i costi. Attualmente queste speciali “waterbox” costano 12 sterline l’una, un prezzo esorbitante per gli agricoltori dei Paesi del Terzo Mondo che, quindi, dovrebbero mettersele a punto artigianalmente in proprio con materiali a buon mercato.

I costi rappresentano uno dei limiti anche della più avveniristica tecnologia esposta a Londra cioè il desalinatore a batteri, che parte dalla stessa esigenza del desalinatore solare ossia ricavare acqua dolce dal mare senza consumare energia tradizionale. Lo scopo è quello di asportare il cloro e il sodio dall’acqua marina attraverso dei particolari batteri, stipati in un contenitore e riforniti con dei nutrienti, che per metabolizzare il cibo producono particelle innescanti una serie di reazioni a catena negli altri contenitori che compongono il desalinatore. Questa soluzione sperimentale non è ancora in grado di garantire applicazioni su larga scala, anche perché le sostanze che alimentano i batteri sono piuttosto care. Riuscire a nutrirli con acque reflue di fogna, quindi, consentirebbe di raggiungere insieme due risultati.

In giro per il mondo non mancano, poi, altri progetti futuribili, tra i quali colpisce il “Water Theater”, progettato dal Grimshaw Architects, un grande auditorium che contemporaneamente si comporta da serra sul mare, sfruttando al meglio le spiagge scoscese della zona, i venti principali e l’abbondanza di sole. Utilizzando queste energie rinnovabili, la struttura attraverso evaporatori impilati verticalmente e condensatori converte l’acqua di mare in acqua dolce. I lettori più incuriositi possono dare un’occhiata al suo funzionamento con il breve video al lato (nota: premendo il tasto CC si possono leggere i sottotitoli in italiano).

La carenza d’acqua riguarda anche noi

Non commettiamo l’errore di considerare le soluzioni allo studio per l’approvvigionamento dell’acqua come la ricerca di risposte a un problema lontano. La carenza nella gestione idrica è una delle (ormai numerose) piaghe italiane. Secondo l’Istat, il nostro Paese spreca fino al 47% delle sue risorse idriche a causa della noncuranza con cui sono utilizzate e, soprattutto, di una rete idrica nazionale che ormai somiglia a un colabrodo. Il fenomeno è diffuso ed è particolarmente grave in regioni come Puglia, Sardegna e Abruzzo, in cui per ogni 100 litri di acqua erogata se ne perdono altri 80 lungo la rete. Il WWF Italia ha denunciato la nostra arretratezza nella gestione sostenibile dei corsi d’acqua, sottolineando che “Siamo gli ultimi in Europa nell’applicazione della direttiva quadro Acque 2000/60/CE per la protezione delle acque superficiali e sotterranee”. Non basta. “Attualmente lo Stato dà concessioni consentendo un prelievo di quantità d’acqua superiore rispetto a quella che i corsi d’acqua sono in grado di fornire”.

Se in questo Paese prevalesse una merce ormai rara come il buonsenso, gli investimenti pubblici sarebbero prioritari in settori primari come quello idrico, dirottati da iniziative di palese inutilità. Il richiamo alla mente dei 22 miliardi di euro che nei prossimi anni verranno defenestrati per il TAV in Val di Susa è un esempio fin troppo facile. Certo, la materia è complessa e andrebbe messa a punto una riforma complessiva del settore, ma resta il fatto che un Paese con una storia bimillenaria nello sviluppo degli acquedotti non può aver dimenticato che disporre di grandi volumi d’acqua potabile è una delle grandi priorità. “Per una sola barretta di cioccolato occorrono l’equivalente di 13 vasche da bagno”, ricorda la curatrice della mostra londinese Sarah Richardson. Faremmo bene a rammentarcelo spesso…..