Napoli si può salvare… con la cultura

“Mi chiamo Antonio Piccirillo e sono figlio di Rosario Piccirillo, boss della camorra” così esordisce un giovane di 23 anni nella manifestazione “DisarmiAmo Napoli” indetta contro la camorra alcuni giorni fa, dopo l’ennesimo fatto di sangue che ha sconvolto la città: il grave ferimento di una bambina di 4 anni.

Ascoltare le parole di questo giovane, al di là di quello che è stato riportato su molti giornali, ha suscitato in me commozione e speranza. Ho avvertito la forza dirompente del suo messaggio… un grido contro i camorristi “a lasciare in pace i propri figli” e un incitamento ai figli “a redimersi”, a dare un segnale, ad essere diversi dai genitori, ad uscire allo scoperto e assumersi la responsabilità, con coraggio, di scegliere un’altra vita per se stessi, per le persone che amano e per la collettività. Un grido attraverso il quale Antonio Piccirillo ha liberato il suo personalissimo dolore che ha trovato una dimensione collettiva e condivisa nel quale esprimerlo. Il motivo lo ha fornito lui stesso: la vita che i camorristi fanno e che costringono a fare ai loro familiari è “una vita di merda”.

Antonio è stato vittima e testimone, dall’interno, del mondo della malavita. Una vita dall’altra parte, la vita di un bambino, di un adolescente, e poi di un giovane, che si è sentito marchiato, un diverso. Un figlio che non ha potuto “stimare” i suoi genitori, che ha dovuto sin da piccolo ricostruire i punti di riferimento, per non perdersi anche lui, per scegliere presto da che parte stare.

In quei brandelli di intervista c’è tutta la dignità di un uomo, che si è assunto la responsabilità verso se stesso, verso la propria famiglia “che ama, ma che non stima, non si può stimare chi fa soffrire gli altri” e verso la collettività. Sono parole che suonano diverse, “nuove”. Sentire pronunciate in maniera così diretta, chiara ed esplicita quella confessione “Io sono Antonio Piccirillo, figlio di un boss della camorra” e quell’abiura “la camorra fa schifo, io non stimo mio padre”, resa pubblicamente, è assistere alla rappresentazione di un lungo processo interiore di identificazione e di distinzione. Io non sono mio padre, questo può esser vero per tutti coloro che hanno avuto dei padri “scomodi”. Io posso essere diverso da lui, posso e voglio scegliere di rendere me stesso migliore e dare a me e alla mia famiglia la possibilità di una vita diversa. Antonio si presenta alla società per essere accettato e riconosciuto per se stesso, non più identificato e associato al padre, che non rinnega in qualità di figlio.

Le parole di libertà dalla schiavitù e dalla sottomissione al male pronunciate da un giovane, apparentemente condannato sin dalla nascita a replicare i comportamenti del padre e della famiglia, non possono che acquistare una dimensione di verità sofferta ed essere autentici. Antonio dice “no”. E quel no è esplosivo per una società pervasa dalla malavita, dominata dall’apatia e dall’indifferenza.

Alcuni giornali lo elogiano, ma sostengono che non basta se lo STATO non sostiene la sua scelta, ma Antonio in quel momento ha incarnato nella forma più alta lo Stato, come partecipazione di ogni cittadino al benessere e al miglioramento della Società. Lo Stato è lui, siamo noi, sono tutte quelle persone che hanno manifestato a Napoli in difesa della città, della parte sana della città, a dispetto di quanti pensano che è “lo STATO”, quasi un’entità altra, esterna a dover fare qualcosa e, perciò, si girano dall’altra parte, dicendo “io che posso fare?”, o peggio “tanto è tutto inutile”, o ancora “chi te lo fa fare”.

E’ l’insana cultura della “deresponsabilizzazione”, della trasformazione che la cultura consumistica ed edonistica ha operato nelle coscienze di ciascuno di noi, riducendoci da cittadini attivi a consumatori passivi e bulimici. Non partecipare, accettare, tacere, lasciare che altri gestiscano la società e le nostre vite. Annullare ogni forma di presenza e di azione diretta. Invece, questo ragazzo, quest’Uomo ci ricorda che ciascuno di noi è responsabile verso se stesso e verso gli altri e può scegliere, può sempre scegliere quale vita vivere e in cosa mettere il proprio impegno. Il comportamento di ciascuno di noi contribuisce a creare la società in cui ci troviamo a vivere e Antonio Piccirillo ce lo ricorda, per questo ci colpisce. Perché Antonio ha agito, a dispetto della cultura del “chi glielo fa fare”. Ha scelto di rischiare, perchè non ha più paura, ha sentito più devastante e paralizzante per la sua esistenza la passiva accettazione, l’indifferenza.

Alcuni giornalisti si domandano sulle proprie testate a cosa possa servire questa manifestazione di coraggio, se resta isolata, se manca la presenza dello STATO. A nulla servono, dunque, le parole di questo giovane? Ma non è questa la forma che può prendere la “cultura mafiosa” nella società civile, e che ciascuno dovrebbe combattere? Non è forse una maniera strisciante per depotenziare il messaggio dirompente di Antonio e vanificarlo, alimentando il pavido e passivo pensiero condiviso che altri debbano agire?

Siamo, dunque, schiavi di una incultura distruttiva e paralizzante che ci viene somministrata a dosi costanti tutti i giorni, per impedirci di “pensare” e di essere uomini liberi, di poter costruire una vita e una società migliore, quella speranza che infonde ad Antonio il coraggio di distinguersi e di distanziarsi.

Antonio ha pronunciato le parole più forti e più coraggiose che un uomo, qualunque uomo che voglia essere tale, dovrebbe pronunciare per se stesso e per gli altri. Ha pronunciato parole di speranza e di salvezza. “Napoli si può salvare, ma non con gli ergastoli e il 41 bis”, non, dunque, con la repressione, ma “con gli esempi” e la “presenza della cultura”. L’esempio e la testimonianza che può esistere una vita diversa e migliore, e che questa possibilità è per tutti, ma soprattutto che la conoscenza, che la cultura sono le leve su cui agire, le sole vere armi non violente che possono reprimere e distruggere la violenza e la malavita, perchè agiscono nella profondità delle coscienze.

Chi, dunque, vuole farci credere che un uomo non conta? Chi vuole convincerci che la sua forza, la forza del suo esempio e della sua dignità non contano, non servono a niente, non contribuisce forse ad alimentare e ad accrescere la “mentalità mafiosa”?
Ogni uomo è chiamato a rispondere di ciò che fa, ma anche di ciò che non fa. Ogni uomo è chiamato ad alzarsi e ad assumersi le proprie responsabilità, ricordandosi in ogni momento che è lui lo “STATO”. L’insieme dei valori morali e dei principi di equità e giustizia formano le coscienze di ciascuno di noi. Noi incarniamo, testimoniamo, rendiamo attivo e operativo lo STATO. Armiamoci di libri, dunque. Non c’è alcuna salvezza, né libertà, né vita vera, senza pensiero e senza cultura, è questa la forza semplice e straordinaria delle parole di Antonio e di tutti coloro che sapranno pronunciarle ancora.